Concezioni irrazionalistiche del giovane De Martino?

[Mi pare di poter scorgere in queste posizioni del giovane De Martino qualcosa di simile a quelle espresse dal De Unamuno del "Commento al Don Chisciotte": Infatti il De Unamuno appoggiò in un primo tempo il franchismo, salvo poi pentirsene.]

Se per il De Martino maturo, il ritorno alla religione rappresenta l’espressione più significativa della decadenza dell’Occidente, in questa fase della sua riflessione egli vede nella fede l’unico valido antidoto alla profezia spengleriana del tramonto.

Fin dal suo primo scritto, egli riconduce, infatti, la decadenza all’ «eccessivo sviluppo della nostra facoltà critica: in virtù della quale la profezia ha abbandonato il vate ed il mistico per rinchiudersi nel lucido concetto del filosofo». E afferma, dunque, l’esigenza di tornare «alle sorgenti prime della vita», di eliminare «ogni successivo sviluppo della civiltà», di opporre, insomma, alla «potenza della Ragione» (il «prodotto più genuino del vecchio Occidente») la forza della fede.

In un’ottica chiaramente nietzscheana, De Martino sottolinea il profondo distacco tra razionalismo e vita: fornendo solo «affermazioni logiche» che «non insegnano necessariamente il dover essere 23 », lo spirito critica genera una razza stanca, di «uomini troppo saggi, troppo illuminati, che ragionano per tragiche certezze e soffrono per ineliminabili dubbi». La religione, al contrario, ha un carattere intrinsecamente propulsivo: il mito in cui si incentra pretende, infatti, di essere prolungato «in un’azione conforme», trascinando «subito al servizio verso Dio e verso gli uomini». Come dimostra il caso della «contadina bretone» (Giovanna D’Arco, credente fino al martirio), «l’uomo dalla Fede pura è pronto a scatenare la guerra santa ove qualcuno minacci la saldezza del suo credo. [...] Qualunque sia il giudizio che si merita un uomo di tal natura, certo è che la storia ha assolutamente bisogno della sua stupenda perfezione morale, del suo dover essere inesorabile e tremendo».

Sulla base di quanto detto, sembra di poter concludere che il giovane De Martino rientra a pieno titolo in quel vario movimento di rivalutazione del sacro che, trent’anni dopo, condannerà in quanto crisi. Ma è proprio così? È lecito parlare in questo caso di “ritorno alla religione”?

A mio avviso no, e proprio a causa del nesso tra religione e storia che lo studioso stringe a partire dal 1934 (l’anno cruciale del trasferimento a Bari e dell’incontro con gli intellettuali crociani riuniti a Villa Laterza).

La religione di cui si parla negli scritti politici del giovane De Martino, non è, infatti, una religione in senso stretto – vale a dire un simbolismo mitico-rituale che colloca l’origine e il termine della storia in un orizzonte metastorico – ma una religione civile, integralmente mondana, che se da un lato «non potrebbe non essere il fascismo», dall’altro «si riattacca alla migliore tradizione del pensiero moderno, alla sua corrente storicistica».

Si tratta, evidentemente, di una prospettiva assai confusa, da cui però emerge (ed è questo che per noi conta) la critica all’idea di un “ritorno alla religione”.

«Ma ritorno, che cosa può voler dire?», si chiede De Martino nei frammenti sulla religione civile 24 . «Un ritorno al passato ha sempre qualcosa di servile e brutale e, ad ogni modo, di non spirituale ed umano».

Pur riconoscendo, per così dire, le ragioni dell’irrazionalismo, egli condanna, infatti, esplicitamente quelle religioni «che, in un’età dominata dallo storicismo, avanzano, senza giustificarla, una pretesa antistoricistica».

Che valore può avere un ritorno all’arianesimo puro, o all’imperialismo pagano? Tutte scempiaggini, sebbene, pur nella vacuità dell’assunto, celino un bisogno reale dell’età nostra, in cerca affannosa di nuovi dèi tra la rovina di quelli antichi 25 .

Al pari di Evola, De Martino ritiene che il Cristianesimo sia ormai al tramonto: avendo «distrutto il mito del sopramondo», l’uomo moderno non può più trovare la salvezza in una religione sovramondana fondata sulla «speranza in un ordine nuovo di cose, “toto caelo” diverso da quello naturale e sociale, la speranza di un Regno che, anche quando è già in atto, non è mai quello dei traffici e delle guerre e delle mondane cure, ma quello, in sostanza, in cui non si danno né si pigliano mogli».

Al contrario di Evola, però, egli ritiene che non sia lecito ingiuriare il Cristianesimo, «religione che ha pur salvato, durante millenni», né pretendere di invertire la ruota della storia, cancellandolo dalla nostra identità culturale. Con parole che ricalcano il celebre scritto di Croce, De Martino dichiara, infatti: «Posso dichiararmi, oggi, anticristiano e anticattolico, ma non posso, ad ogni modo, non riversare nella mia religione civile, una certa esperienza di Cristianesimo e Cattolicesimo: la parte vitale, s’intende».

«Tutto ritorna e, al tempo stesso, tutto è irripetibile», commenta in un altro punto.

Torna il Colosseo? No. C’è qualcosa che torna dello spirito antico nel modo in cui sento oggi l’altare della patria: ma, intanto, in questo mio stato d’animo d’oggi, c’è qualcosa di più e di meglio dell’esperienza degli antichi. [...] L’altare della patria, come espressione dello spirito, dev’essere qualcosa di meglio del Colosseo.

Allo stesso modo, chi viene al mondo dopo «Gesù e Lutero e la filosofia moderna», può certo apprezzare le virtù degli antichi romani, ma a nessun costo può desiderare di scambiarsi con uno di loro, per il semplice fatto che la sua «spiritualità è più ricca», la sua «vita morale e religiosa più intensa».

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23 «Che il filosofo muoia per la sua verità, come Bruno, o non testimoni proprio nulla per essa, come Kant, questo interessa i filosofi sino ad un certo punto», si legge, infatti, in E. De Martino, Critica e fede, in D. Conte, Decadenza dell’Occidente e «fede» nel giovane De Martino, op. cit., p. 515.
24 Contenuti nella cartella 1.6 dell’Archivio De Martino, tali frammenti rappresentano, secondo Capocasale, la revisione di un primo saggio sulla religione civile che De Martino aveva sottoposto a Pettazzoni all’inizio del 1934. Dai Materiali per una biografia curati da Mario Gandini, si evince che lo storico delle religioni (sulla cui rivista De Martino pubblica per la prima volta proprio nel 1934) aveva definito il manoscritto «un lavoro che merita di essere ripreso e sviluppato», sconsigliando al giovane studioso di presentarlo tra i titoli per il concorso a cattedre di Storia e Filosofia. Cfr. M. Gandini, Raffaele Pettazzoni nelle spire del fascismo (1931-1933), op. cit., p. 152. Se della prima versione possiamo immaginare il tono grazie a ciò che De Martino ne riferisce nelle lettere a Macchioro, la seconda riflette evidentemente il delicato momento di svolta, politica e intellettuale, successivo al trasferimento a Bari.
25 Qui De Martino si riferisce, da un lato, allo storico delle religioni tedesco J. W. Hauer: autore di Die Religionen: ihr Werden, ihr Sinn, ihre Wahrheit, Kohlhammer, Berlino 1923 e fondatore, nel 1933, del Movimento della Fede Tedesca, dall’altro a Julius Evola, autore di Imperialismo pagano. Il fascismo dinanzi al pericolo euro-cristiano, Atanor, Todi 1928.


Donatella Nigro, La "crisi delle scienze religiose". Ernesto De Martino fra storicismo e irrazionalismo, in www.filosofia-italiana.net , Aprile 2014, pp. 6-8.

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