La critica di De Martino al metodo fenomenologico nell'analisi del fatto religioso

In uno scritto successivo – la prefazione al Trattato di storia delle religioni, apparso nel 1954 sempre all’interno della Collana Viola – De Martino sottolinea, infatti, come per Eliade (profondamente influenzato da Jung 168 ), «al fondo delle varie religioni operano sempre gli stessi “archetipi”, cioè le stesse immagini e gli stessi simboli fondamentali, nei quali si esprime la condizione umana come tale, al di là di tutte le epoche e di tutte le civiltà 169 ». Il che lo porta, paradossalmente, ad affermare che «la storia delle religioni è, a differenza delle altre storie, “reversibile”» poiché «per certe coscienze religiose in crisi è sempre possibile un salto storico che permette loro d’attingere posizioni spirituali altrimenti inaccessibili 170 ».

«La pretesa religiosa di evadere dalla storia» – che Eliade ha il merito di avere intuito, riconducendola all’angoscia per il divenire dell’umanità arcaica – finisce dunque per assumere, a causa della mancata storicizzazione, «un valore ontologico effettivo 171 ». Tralasciando di indagare le ragioni storiche di tale angoscia (la fragilità della presenza e il correlativo bisogno di riscatto), essa viene, infatti, riconosciuta come un dato originario, non ulteriormente riducibile, e ciò comporta, secondo De Martino, il venir meno di «ogni distinzione fra scienza e oggetto della scienza, fra storiografia religiosa e visione religiosa del mondo: il mito delle origini e della caduta, una formazione storica ben definita che lo storico deve ricondurre al dramma umano che l’ha generata, rischia così di diventare la stessa teoria metodologica dello storiografo! 172 ».

Da qui, la tesi secondo cui al Trattato di Eliade meglio «converrebbe il titolo di tipologia (o di fenomenologia) piuttosto che quello di storia 173 ».

Ma cosa si intende per fenomenologia nell’ambito delle scienze religiose?

Esponente principale di questo orientamento delle scienze religiose è Gerardus van der Leuuw: storico e filosofo delle religioni, autore nel 1933 di un’opera intitolata, per l’appunto, Phänomenologie der Religion. Oltre a rivendicare la propria autonomia rispetto alle altre scienze religiose, la nuova disciplina pretende di avere individuato «il metodo per eccellenza per “capire” la vita religiosa 174 ». Fortemente influenzata da Otto (ma anche da Husserl, Heidegger, Dilthey: studiosi accomunati, secondo De Martino, da «una certa aria di famiglia 175 »), la fenomenologia ritiene che non ci si possa accostare alla vivente esperienza religiosa con i metodi astratti dell’intelletto, ma si debba, dapprima, «immettersi sentimentalmente» nei fenomeni religiosi e «riviverli», poi analizzarli intuitivamente «così come si danno», al fine di attingerne l’essenza, e infine sintetizzare intuitivamente le essenze in «una unità significativa 176 » che è il tipo ideale.

Pertanto la fenomenologia della religione come scienza autonoma sarebbe in sostanza la ricerca intuitiva delle strutture della esistenza religiosa, colte dal fenomenologo nel calore e nella vibrazione del proprio Erlebnis, col metodo della divinazione e col criterio della evidenza. Per questa via sarebbe fondato — secondo il van der Leeuw — un capire non ostile alla vita religiosa. Ma sono l’Erlebnis e l’intuizione strumenti adeguati del «capire» scientifico? In verità l’Erlebnis è un oscuro e ambiguo rivivere, un mistico essere afferrati e dominati dall’oggetto, senza esser mai sicuri di quel che appartiene a noi e di quel che appartiene all’oggetto, di quel che è nuova esperienza religiosa in atto e di quel che invece è scienza di questa esperienza 177 .

Nell’approccio fenomenologico, il sacro viene, infatti, «rivissuto e descritto proprio come appare a chi è religiosamente impegnato: cioè come un mistero che non si può spiegare, come una potenza che si manifesta».

Ogni tentativo di storicizzare ciò che si prova, di distenderlo in un processo culturalmente significativo, di farlo risultare da questo processo, è qui deliberatamente respinto: proprio come lo respinge la coscienza religiosa in atto. Il problema della genesi umana della esperienza della potenza divina resta fuori dell’orizzonte: allo stesso modo questo problema non appartiene alla immediata esperienza religiosa della potenza. È stata in certo senso toccata l’ultima Thule, il punto dove il capire defluisce nel rivivere, dove il numinoso si manifesta, anzi dove addirittura il nume stesso è presente: e certamente l’esperienza della potenza appare all’uomo religioso appunto così.

Ma è questo l’unico modo per capire la religione? Evidentemente no.

Quando si tratta di «capire», né il rivivere, né l’intuire, né il reduplicare nella descrizione il rivissuto bastano più. Quando si tratta di «capire» occorre uscire dalla limitazione in cui versa l’esperienza del sacro, e chiedersi per quali ragioni umane sono nate certe e non altre potenze divine, e per quale processo storico la coscienza si è determinata secondo una limitazione in forza della quale stanno di fronte a lei potenze divine così e così determinate 178 .

«Conoscenza storica delle religioni – si legge in Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni – significa risolvere senza residuo in ragioni umane ciò che nell’esperienza religiosa in atto apparvero ragioni numinose».

La esperienza religiosa in atto vive in una sua propria limitazione, che è il rapporto col nume, quale che sia questo nume e quale che sia questo rapporto: la conoscenza storica della vita religiosa è la ricostruzione del come e del perché umani si generarono nel quadro di una determinata civiltà religiosa proprio quel nume e proprio quel rapporto 179 .

Ciò che al fedele si manifesta come ganz Anderes, che al contempo affascina e atterrisce; ciò che al razionalista appare delirante, contravvenendo alle norme della logica; ciò che per il tipologo, il fenomenologo e lo psicologo junghiano sembra dischiudere un universo più ricco e profondo, in cui l’uomo possa sentirsi realmente a casa, deve essere, quindi, secondo De Martino, indagato nelle sue ragioni storiche e, così, integralmente umanizzato. A tal scopo, è necessario che la storia delle religioni superi la crisi attuale 180, schierandosi decisamente a favore dello storicismo e contro la coscienza religiosa.

Che cosa è lo storicismo? È una visione della vita e del mondo fondata sulla persuasione critica che la realtà si risolve, senza residuo, nella storia, e che la realtà storica umana, nelle sue individuali manifestazioni, è integrale opera dell’uomo ed è conoscibile senza residuo dal pensiero umano. Che cosa è la esperienza religiosa? Dal punto di vista della coscienza che vi è impegnata la esperienza religiosa è un rapporto rituale con una realtà metastorica o mitica. Vi è pertanto una opposizione puntuale fra coscienza storicistica e coscienza religiosa (o mitico-rituale), e questa opposizione è piantata nel cuore stesso della civiltà moderna, che è moderna nella misura in cui, prendendo coscienza del conflitto, opta per la coscienza storicistica accettando tutte le conseguenze di questa opzione 181.

Quali? In primo luogo, che storicizzare una religione vuol dire perderla per sempre.

Un nume riportato alle ragioni umane che lo generarono è definitivamente sottratto al culto e alla preghiera, e un «mito delle origini» che il pensiero riesce a sorprendere allo statu nascendi nel cuore dell’uomo non è più un mito delle origini nel quale si possa attualmente credere, poiché ormai si è fatta valere un’altra origine, quella dell’uomo produttore di miti 182 .

E perdere la religione vuol dire rimanere privi di quella «tavola di salvataggio» che ci consente di «non affogare nell’oceano dell’esistenza 183 ».

Per una storia delle religioni autenticamente storicistica – che non considera il rapporto uomo-Dio quale dato da descrivere, ma intende ricostruirne il dramma 184 – la religione si configura, infatti, come la tecnica «che dischiude il passaggio dalla crisi alla reintegrazione 185 », soccorrendo la presenza che minaccia di perdersi.

«È un errore ritenere che la presenza [...] sia al riparo da qualsiasi rischio», scrive De Martino in Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto. Se essa costituisce il «primo bene vitale umano» è, infatti, proprio perché si tratta di un bene che, «in date condizioni storiche, può correre il rischio di andare perduto 186 ». Nei momenti critici dell’esistenza, quando «la storicità sporge, il ritmo del divenire si manifesta con particolare evidenza, il compito umano di “esserci” è direttamente e irrevocabilmente chiamato in causa 187 », l’esserci nel mondo può entrare in crisi, e tale pericolo, lungi dal riguardare i soli primitivi, incombe, dopo il ritorno a Croce, sull’uomo di ogni tempo. Da qui, la necessità che ciascuna civiltà si doti di una «tecnica rivolta non già ad appropriarsi della natura oggettiva, costringendo minerali, piante e animali (o il corpo umano come corpo animale) a cospirare con le necessità della vita umana, con i bisogni materiali dell’uomo, ma ad appropriarsi quel bene vitale che è la presenza, ad impedire che la presenza vada precipitando nel mero vitale organico, dal quale, primissima gloria dell’uomo, si è sollevata».

Vi è dunque una tecnica della presenza verso se stessa, al fine di non diventare natura e di potersi permettere una cultura: una tecnica che può anche essere pensata come dominio sulla natura, ma nel senso di una lotta contro il naturalizzarsi della presenza e per impedire il trionfo assoluto del vitale-animale lì dove si pone l’animale che deve diventare uomo e che anche alla vitalità deve dare un significato umano e non più soltanto meramente animale.

E «questa tecnica (o, se si vuole, questa “politica”) della presenza verso se stessa 188 » è, per l’appunto, la religione che, in quanto espressione della «coerenza umana», «il pensiero storiografico può ripercorrere senza lasciare proprio nessun residuo all’immediatezza (e all’arbitrio) di un mistico rivivere». Naturalmente, osserva De Martino, si tratta «di una coerenza diversa da quella dell’arte, o dell’ethos, o della filosofia: ciò che qui si nega è che non gli sia immanente nessuna forma di razionalità, e che racchiuda un nucleo “irrazionale” irriducibile, tale da indurre il pensiero storico alla contraddittoria fatica di uscire da sé stesso e dalla storia umana 189 ».

Interpretata come tecnica, l’esperienza religiosa perde, infatti, ogni residuo di mistero. Se il sacro appare al fedele come un ganz Anderes ambivalente, ciò accade perché, nella crisi, è la presenza stessa che rischia di alienarsi, di diventare altro, e quindi essa, da un lato, «recede inorridita davanti al processo della sua propria alienazione», ma dall’altro «non può disinteressarsene, poiché mai come qui res tua agitur».

Il rapporto ambivalente del sacro non è dunque un mistero da rivivere e da descrivere: resta mistero per chi vi è impegnato, e anche per il «fenomenologo» che lo assume come dato, come «fenomeno che si mostra», e che deliberatamente rinunzia a risolvere questo certo nel vero del reale processo ieropoietico, da ricostruire volta a volta nella concretezza di determinate civiltà religiose 190 .

Ma come avviene, concretamente, il riscatto religioso della presenza in crisi? Secondo De Martino, mediante la destorificazione mitico-rituale. Pur nella varietà dei regimi socio-economici, ciascuno caratterizzato da differenti momenti critici, ciò che determina, in ultima istanza, la crisi è sempre il carattere storico, l’insuperabile precarietà dell’esistenza. La religione, dunque, in quanto tecnica che «aiuta a vivere, non già nel senso generico e banale dell’espressione ma nel senso profondo che recupera e mantiene la base esistenziale della vita umana, cioè la presenza», interviene sottraendo alla storia determinati momenti critici esemplari, collocandoli in un orizzonte mitico che si riattualizza attraverso il rito, e quindi risolvendoli «nella iterazione dell’identico». Grazie a questo «mascheramento della storia angosciante 191 », grazie a questa «vitale pia fraus» che consente di «stare nella storia come se non ci si stesse 192 », si ridischiudono le forme di coerenza culturale (i valori intersoggettivi) e l’individuo riguadagna la capacità di agire nel suo mondo storico.

Ed è in tale riconquista – nel terzo atto del dramma, insomma – che consiste, come già per la magia, il significato culturale delle religioni.

Se la destorificazione religiosa fosse effettivamente salvezza della esistenza umana, rifiuto radicale e definitivo della storicità, ne risulterebbe una insanabile opposizione fra religione e cultura, e resterebbe senza spiegazione il fatto che le civiltà hanno tratto alimento dalla vita religiosa — che la religione greca rese possibile la poesia di Omero e la religione cristiana la poesia di Dante. Al contrario, sebbene la destorificazione religiosa sia vissuta dal credente come rifiuto della «condizione umana», ciò che da essa procede non è una reale destorificazione (che nella forma più conseguente dovrebbe dar luogo al suicidio fisico o psichico), ma il dispiegarsi delle potenze operative dell’uomo, onde all’ombra del divino si matura l’umano, e per entro il sacro si dischiude il profano e il laico 193 .

Come dimostra il fatto che, proprio all’ombra del Dio cristiano, sia maturato nel corso dei secoli quel pensiero destinato a dichiarare il tramonto di ogni religione: lo storicismo. Collocando il mito fondatore non più alle origini, ma al centro della storia, e identificandolo con la nascita terrena di un Uomo-Dio, il Cristianesimo ha alzato, infatti, «il velo sulla storicità della condizione umana» e posto le basi non solo per l’egemonia del mondo occidentale («una egemonia fondata sulla potenza del mondano operare 194 »), ma anche per il suo stesso declino.

_______________________

168 Il rapporto di De Martino con la psicoanalisi rappresenta un capitolo troppo vasto per essere esaurito in poche pagine. Mi limito a dire che, mentre Freud è indicato come colui che ha introdotto l’istanza storicistica in psicoanalisi, contribuendo alla teoria della destorificazione mitico-rituale con la sua idea della «ripetizione attiva che mira alla riappropriazione e alla risoluzione dell’episodio traumatizzante» (cfr. E. De Martino, Mito, scienze religiose e civiltà moderna, op. cit., p. 43), la teoria degli archetipi di Jung viene, in un primo momento, apprezzata perché espressione dell’ampliamento dell’umanesimo occidentale (cfr. E. De Martino, recensione a C.G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, in “Primato”, 4, 1943, pp. 10-11), ma poi, a partire dagli anni Cinquanta, drasticamente condannata in quanto degenerazione irrazionalistica della psicologia del profondo.
169 E. De Martino, prefazione a M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Einaudi, Torino 1954, p. IX.
170 E. De Martino, recensione a M. Eliade, Le mythe de l’éternel retour, archétypes et répétition, etc., op. cit., p. 152.
171 E. De Martino, prefazione a M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, op. cit., p. IX.
172 E. De Martino, recensione a M. Eliade, Le mythe de l’éternel retour, archétypes et répétition, etc., op. cit., pp. 152-153.
173 E. De Martino, prefazione a M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, op. cit., p. IX.
174 E. De Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, op. cit., p. 47.
175 Ivi, p. 48.
176 Ivi, p. 49.
177 Ibid.
178 Ivi, p. 54.
179 E. De Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, in E. De Martino, Storia e metastoria, op. cit., p. 76.
180 «Bisogna riconoscere che i tempi sono in un certo senso “pii”, non già perché siamo entrati in un’epoca religiosamente creativa, ma piuttosto per una contradittoria nostalgia del soprannaturale o dell’irrazionale, senza tuttavia potervisi immergere in “buona fede” e con quella immediatezza che caratterizzano appunto le epoche religiosamente creative. I surrogati della schietta vita religiosa si moltiplicano: e tra la fede e l’incredulità ci si ferma di solito a metà strada, mascherando a se stessi il dissidio, e cercando di teorizzare compromessi e conciliazioni. Di questa situazione il Congresso di Roma è stato, com’è naturale, specchio fedele», basandosi sul «presupposto tacito od espresso della sostanziale conciliabilità fra vita religiosa in atto e coscienza storico-religiosa». E. De Martino, Coscienza religiosa e coscienza storica, in “Nuovi argomenti”, 14, maggio-giugno, 1955, pp. 91-92.
181 Ivi, p. 89.
182 Ivi, p. 91.
183 Come si legge nell’intervista che De Martino concesse, poco prima della sua morte, a Leoni, giornalista di “L’Europeo”. Cfr. E. De Martino, Rapporto sull’aldilà, in “L’Europeo”, XI, 21, 23 maggio, 1965, p. 83.
184 Dramma che, precisa De Martino, «non va inteso affatto come vicenda precategoriale, dalla quale le distinte potenze del fare avrebbero nascimento: al contrario tutte le categorie della vita spirituale, la totalità dei valori o delle forme della cultura, condizionano questa vicenda e la rendono possibile e pensabile come dramma umano. L’umana angoscia di non esserci nella storia non potrebbe mai insorgere se la presenza non fosse già, nella totalità delle sue potenze operative e nella integrità dei suoi compiti, se queste potenze non fossero già tutte operanti sia pure in forma elementare: altrimenti di quale perdita la presenza si angoscerebbe, e da quale rischio radicale si sentirebbe colpita? La presenza può diventare problema solo per un uomo che ha già gustato in qualche modo l’aspra dignità della scelta, e che questa dignità non vuol perdere, onde recede inorridito e si oppone scongiurante, in questa opposizione inaugurando le forme del riscatto culturale magico-religioso». E. De Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, op. cit., pp. 60-61.
185 E. De Martino, Mito, scienze religiose e civiltà moderna, op. cit., p. 62.
186 E. De Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, op. cit., p. 59.
187 Ivi, p. 62.
188 Ivi, p. 60.
189 E. De Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, op. cit., p. 85.
190 E. De Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, op. cit., p. 61.
191 Ivi, p. 62. In Mito, scienze religiose e civiltà moderna, De Martino rimprovera al Positivismo di avere interpretato la religione quale «“maschera” di qualche cosa d’altro: di esigenze filosofiche, scientifiche, estetiche, morali, di mondani bisogni proiettati nel sopramondo e nel sopramondo illusoriamente soddisfatti, di strutture economico-sociali o addirittura della sessualità» (cfr. E. De Martino, Mito, scienze religiose e civiltà moderna, op. cit., p. 35). Ma poi lui stesso, come si è visto, le attribuisce il compito di mascherare la storia che angoscia, rappresentando i momenti critici come già risolti nell’illo tempore del mito. Cosa distingue le due teorie? Nell’ottica positivistica, la religione maschera nel senso che occulta la verità, producendo così superstizione e pregiudizio; secondo De Martino, invece, quella della religione è una frode pia, in quanto la maschera è lo strumento stesso del progresso, la tecnica che l’umanità ha inventato per riuscire ad affrontare la precarietà della storia.
192 E. De Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, op. cit., p. 63.
193 Ivi.
194 E. De Martino, Mito, scienze religiose e civiltà moderna, op. cit., p. 69.


Donatella Nigro, La "crisi delle scienze religiose". Ernesto De Martino fra storicismo e irrazionalismo, in www.filosofia-italiana.net , Aprile 2014, pp. 42-48.

Commenti