Il collegamento tra meditazione buddhista (dissoluzione del senso del sé) e area cerebrale preposta all'orientamento

Anni di ricerca avevano [...] indotto Gene e me a credere che esperienze come quella di Robert [la dissoluzione del senso del sé per mezzo della meditazione] fossero reali e si potessero analizzare e verificare con validi metodi scientifici. Per questo, adesso, ci trovavamo tutti e due in un piccolo ambulatorio e per questo io tenevo tra le dita una cordicella: stavo aspettando il clou della meditazione buddhista di Robert perché volevo radiografarlo.

Aspettammo un'ora, mentre nell'altra stanza il nostro volontario meditava; poi sentii tirare leggermente la corda. Era il segnale atteso: a quel punto introducemmo un composto radioattivo nel lungo tubicino che gli arrivava, oltre la porta, in una vena del braccio sinistro, lasciammo passare ancora qualche secondo finché la meditazione finisse, poi trasportammo in fretta Robert nel reparto di medicina nucleare dell'ospedale. Nel giro di pochi attimi egli venne steso su un tavolo di metallo nella sala della SPECT e le tre grandi teste di cristallo del tomografo gli girarono intorno al cranio con ronzio da robot.

La SPECT (acronimo di single photon emission computerized tomography, tomografia computerizza a emissione di fotoni) è una sofisticata tecnica di scansione che rileva l'emissione di raggi gamma. L'apparecchio esamina l'interno del cervello, individuandovi i radionuclidi che noi avevamo iniettato a Robert appena lo avevamo sentito tirare la corda. Poiché il tracciante radioattivo viaggia nella corrente sanguigna e poiché quel particolare tracciante si combina quasi subito con i neuroni cerebrali, restando in loco per ore, la SPECT del cranio di Robert ci consentì di analizzare con cura la circolazione del sangue nel cervello pochi attimi dopo l'iniezione, durante il picco della trascendenza.

L'accresciuto afflusso di sangue a un'area del cervello è correlato con un'accresciuta attività di quella particolare area, e viceversa. Poiché conoscevamo abbastanza bene le funzioni specifiche delle varie regioni cerebrali, prevedevamo che le immagini tomografiche avrebbero rivelato parecchio sull'attività del cervello di Robert nel momento culminante della meditazione.

Non rimanemmo delusi. Alla fine le immagini mostrarono un'insolita attività in una piccola area di sostanza grigia situata nella sezione superiore posteriore del cervello. Il nome scientifico di questo groviglio altamente specializzato di neuroni è lobo parietale superiore posteriore, ma, considerati gli obiettivi del nostro saggio, Gene e io lo abbiamo denominato area associativa dell'orientamento.

Scopo principale dell'area dell'orientamento è consentire all'individuo di orientarsi nello spazio, di capire quale estremità sia rivolta in su, valutare gli angoli e le distanze, muoversi con disinvoltura nel pericoloso ambiente fisico che lo circonda. Per poterci orientare nello spazio, dobbiamo innanzitutto avere una cognizione chiara e coerente dei limiti fisici del sé. In parole povere, dobbiamo tracciare una netta distinzione tra noi e il resto del mondo, distinguere l'io dall'infinito non io di cui è fatto l'universo intorno a noi.

Potrà sembrare strano che al cervello occorra un meccanismo specifico per controllare la dicotomia io-non io: dal punto di vista della comune coscienza, la distinzione è fin troppo evidente; ma lo è solo perché l'area dell'orientamento compie il suo lavoro con efficacia e costanza. In effetti le persone che riportano lesioni a tale area faticano a muoversi nello spazio fisico. Quando per esempio si avvicinano al proprio letto, non sanno calcolare angoli, profondità e distanze che cambiano continuamente e il semplice compito di sdraiarsi diventa un'impresa impossibile. Senza l'area dell'orientamento, che consente di controllare le coordinate sempre diverse del corpo, tali pazienti non riescono a collocarsi mentalmente nello spazio, sicché non "vedono" il letto e cadono in terra o, se anche raggiungono il materasso, quando cercano di coricarvisi riescono solo a rannicchiarsi goffamente contro il muro.

In circostanze normali, invece, grazie all'area dell'orientamento abbiamo un senso talmente chiaro e preciso della nostra posizione fisica rispetto al mondo da non doverci nemmeno pensare. Per compiere così bene il suo lavoro, l'area associativa dell'orientamento fa assegnamento sul flusso costante di impulsi nervosi provenienti da ciascun senso: seleziona ed elabora gli impulsi quasi all'istante in ogni momento della nostra vita e gestisce un carico notevole di dati con una velocità e una potenza di molto superiori a quelle di una dozzina di supercomputer.

Non c'era dunque da stupirsi se le immagini tomografiche prese prima della meditazione, mentre Robert si trovava in uno stato mentale normale, mostravano in molte aree del cervello, compresa quella dell'orientamento, una frenetica attività neurale rappresentata da esplosioni di vividi rossi e gialli.

Nelle immagini che fotografavano il picco della meditazione, invece, l'area dell'orientamento era tutta percorsa da scure macchie verdi e azzurre, colori freddi che indicavano una forte riduzione del livello di attività.

La scoperta ci incuriosì. Sapevamo che l'area dell'orientamento non era mai inattiva, sicché ci chiedemmo che cosa potesse avere indotto quell'insolito calo del livello di attività.

Mentre riflettevamo sul problema, ci venne in mente un'ipotesi affascinante: e se l'area dell'orientamento fosse stata in realtà più attiva che mai, ma il flusso di dati sensoriali in arrivo fosse stato in qualche modo bloccato? Questo avrebbe spiegato il calo di attività cerebrale nell'area; e, particolare più interessante, avrebbe significato che l'area dell'orientamento era stata temporaneamente "accecata", cioè privata delle informazioni di cui aveva bisogno per compiere adeguatamente il suo lavoro.

Che cosa sarebbe accaduto se l'area dell'orientamento non avesse avuto dati da elaborare? Avrebbe continuato a cercare i confini del sé? Se non le fosse giunto alcun dato sensoriale, non sarebbe riuscita a trovarli. Che cosa avrebbe pensato allora il cervello? Non trovando i confini tra il sé e il mondo esterno, l'area dell'orientamento avrebbe potuto ritenerli inesistenti; in quel caso il cervello non avrebbe potuto fare altro che percepire il sé come qualcosa di infinito e profondamente connesso con tutte le cose captate dalla mente e ritenere simile percezione totalmente e indiscutibilmente reale.

In effetti, è proprio con l'immagine dell'infinito che Robert e generazioni di mistici orientali prima di lui hanno descritto il momento culminante della meditazione spirituale. [...]

Robert era uno degli otto buddhisti tibetani che parteciparono alla ricerca condotta con la SPECT. Ciascun soggetto fu sottoposto alla stessa serie di esperimenti e in quasi tutti i casi le immagini tomografiche mostrarono che durante il picco della meditazione si registrava un rallentamento dell'attività nell'area dell'orientamento.

In seguito ampliammo l'indagine, studiando con la medesima tecnica diverse suore francescane raccolte in preghiera. Le immagini tomografiche mostrarono cambiamenti analoghi nel momento di maggior raccoglimento. Diversamente dai buddhisti, però, le suore dichiararono che in quel momento avvertivano in maniera tangibile la vicinanza di Dio e si sentivano tutt'uno con lui. I loro discorsi ricordavano quelli dei mistici cristiani del passato. Si pensi per esempio alla beata Angela da Foligno, la suora francescana che nel tredicesimo secolo scrisse: «Una grande misericordia è questa fattami da colui che fece questo congiungimento e stabilì l'anima mia in un modo di essere così poco soggetto a mutamenti; questo perché possiedo Dio con totale pienezza. Non sono più nel modo in cui mi trovavo; sono approdata ad una pace nella quale sto con lui e sono contenta di tutto».

Proseguendo nella nostra indagine e raccogliendo sempre più dati, Gene e io ci convincemmo, in base a solide prove, che le esperienze mistiche dei soggetti, gli stati alterati di coscienza nei quali emergeva l'idea dell'unione con qualcosa di più vasto, non fossero prodotte da pii desideri o ingannevoli illusioni, ma fossero associate a una serie di eventi neurali osservabili e, per quanto insoliti, non estranei alla gamma delle normali funzioni encefaliche. In altre parole, sotto il profilo della biologia, dell'osservazione e della scienza l'esperienza mistica ci pareva reale.


A. Newberg - E. d'Aquili, Dio nel cervello, Mondadori, 2002 (ed. or. 2001), pp. 12-17 [ho omesso le note].

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