L"imperativo cognitivo" all'origine dei miti

I poteri cognitivi erano così efficaci che l'evoluzione sembra aver conferito all'encefalo umano la coazione biologica a usarli. Gene e io abbiamo definito questa coazione mentale involontaria «imperativo cognitivo»: il bisogno pressoché irresistibile, biologicamente fondato, di capire le cose attraverso l'analisi cognitiva della realtà.

Gli scienziati hanno trovato prove dell'esistenza dell'imperativo cognitivo quando hanno constatato che la mente, davanti a un flusso schiacciante di dati sensoriali, registra un aumento dell'ansia; e hanno concluso che l'ansia è causata dal fatto che l'insaziabile bisogno mentale di convertire la confusione in ordine è frustrato dai troppi input.

Vi è un modo più semplice e affascinante di dimostrare l'esistenza dell'imperativo cognitivo: guardatevi intorno e provate a non percepire un'immagine coerente del mondo. Oppure, metodo ancora più semplice: provare a non pensare. Come sa fin troppo bene chiunque sia alle prime armi nelle tecniche di meditazione, la mente non è fatta per non pensare.

L'imperativo cognitivo induce le funzioni corticali superiori ad analizzare le percezioni elaborate dal cervello e a trasformarle in un quadro coerente e significativo; e così facendo ha conferito agli esseri umani un'insuperabile capacità di adattamento e di sopravvivenza. Ma le facoltà cognitive presentano anche uno svantaggio. Mentre cercava instancabilmente di individuare e neutralizzare qualsiasi potenziale minaccia, la mente si è imbattuta nell'unico concetto inquietante che non può essere neutralizzato con alcun mezzo naturale: quello di mortalità, che ci tocca tutti nello stesso triste modo.

L'amara constatazione dev'essere stata fatta poco tempo dopo che la consapevolezza di sé era entrata nel DNA degli uomini preistorici; e in quel momento l'imperativo cognitivo deve avere indotto la mente a trovare una soluzione. Il problema impegnò la corteccia cerebrale nella maniera in cui la impegnano tutti gli altri pensieri astratti e presto i sistemi autonomo e limbico indussero una risposta eccitatoria. L'ansia causata da una simile risposta non sarà stata grande come quella provocata dal timore concreto di un terremoto o di una tigre pronta al balzo, ma, finché la sentiva persistere, l'imperativo cognitivo non poteva che chiamare a raccolta i poteri analitici della mente perché la fronteggiassero.

La morte, però, non era l'unica angoscia esistenziale degli uomini primitivi. Quando compresero di essere mortali, essi conobbero un intero reame di angosce metafisiche e si posero interrogativi difficili e senza risposta. Che senso ha nascere se poi dobbiamo morire? Che cos'accade quando si muore? Qual è il nostro posto nell'universo? Perché soffriamo? L'universo da che cosa è composto e mantenuto in vita? Come fu creato? Quanto durerà? E, soprattutto, come possiamo vivere in questo mondo terribilmente incerto senza essere divorati dalla paura?

Sono domande che fanno tremare le vene ai polsi; ma l'imperativo cognitivo non può lasciarle senza risposta e così spinge in continuazione la mente a trovare soluzioni. Per migliaia di anni, nelle civiltà del mondo intero quelle soluzioni sono state trovate sotto forma di mito. Non a caso i miti narrano sempre storie che, con l'uso di immagini e metafore, tentano di risolvere un problema metafisico: Eva mangia la mela, Pandora apre il vaso ecc. Imparando tali storie e tramandandole, troviamo di colpo una risposta sensata ai problemi morali del bene, del male, del dolore e così via.

Tutti i miti si possono in sostanza ricondurre a una struttura elementare. In genere partono da un fondamentale interrogativo metafisico, come la creazione del mondo o l'origine del male, narrano una storia di opposti apparentemente inconciliabili (eroi e mostri, dei e uomini, vita e morte, cielo e inferno), quindi - e questo è l'importante - conciliano gli opposti, spesso attraverso l'azione di un dio o di altre potenze spirituali, e alleviano così l'angoscia esistenziale.

Prendiamo per esempio il mito di Gesù. All'inizio il mondo è immerso nel peccato e il paradiso sembra irraggiungibile. Gli opposti mitici sono chiari: un Dio distante e un'umanità sofferente. Gesù colma lo iato sotto più aspetti: innanzitutto, in quanto figlio di Dio fattosi uomo, concilia gli opposti con la sua persona; poi, attraverso la morte e la resurrezione, unisce Dio e l'uomo in una promessa di vita eterna. Buddha offre un'analoga "salvezza" dimostrando che perseguire l'illuminazione e coltivare il distacco e la compassione consentono di capire l'infinito ciclo della sofferenza umana e di tornare alla sublime unità che rappresenta la nostra vera essenza.

Degli stessi temi si ritrova eco nelle mitologie del mondo antico, nelle storie di dèi e di eroi la cui morte e resurrezione colma il divario tra cielo e terra; si pensi all'egiziano Osiride, al greco Dioniso, al siriaco Adone e al babilonese Tammuz.

Quasi tutti i miti si possono ricondurre allo stesso motivo ricorrente: si parte da un angoscioso interrogativo metafisico, lo si esprime con una dicotomia inconciliabile, poi si trova una soluzione che allevia l'ansia e permette di vivere nel mondo in maniera più lieta. Perché i miti hanno sempre questa struttura? Perché, a nostro avviso, la mente risolve i problemi di ordine mitico utilizzando le stesse funzioni cognitive cui ricorre per comprendere il mondo fisico.

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Il processo è automatico: l'incertezza provoca ansia e l'ansia dev'essere eliminata. A volte le soluzioni sono ovvie e le cause facili da individuare, ma, quando non lo sono, l'imperativo cognitivo ci costringe a risolvere il problema con un'ipotesi plausibile come quella del leopardo tra gli alberi. Simili ipotesi sono particolarmente importanti quando la mente si trova ad affrontare le angosce esistenziali. Soffriamo, moriamo, ci sentiamo vulnerabili e insignificanti in un mondo incomprensibile e pericoloso. Non vi sono modi semplici di risolvere queste grandi incertezze, e in situazioni del genere le storie esplicative che la mente crea assumono la forma di miti religiosi.

È impossibile ripercorrere la rete infinita di fattori culturali e psicologici che ha condotto alla genesi di un mito religioso e sarebbe troppo audace affermare che siamo in grado di spiegare in maniera chiara e incontrovertibile l'evolversi di quel mito. Ma, limitando la nostra analisi a un quadro elementare, possiamo analizzare le origini biologiche della pulsione mitopoietica e addirittura speculare sulle origini neurali di un determinato concetto mitico. Consideriamo, per esempio, il seguente scenario:

In un clan preistorico molto unito, un uomo della tribù è morto e il suo cadavere è stato deposto su una pelle d'orso. Alcuni membri del clan si avvicinano, lo toccano delicatamente e capiscono che il loro amico un tempo vivo ora non è più. Quella che fino a ieri era una persona calda e vitale è divenuta di colpo fredda e inerte.
Il capotribù, un uomo riflessivo, si siede accanto al fuoco del bivacco e medita sulla forma senza vita che un tempo parlava e rideva con lui. Che cosa è venuto a mancare?, si chiede. Cosa si è perso e dov'è andato questo qualcosa? Mentre guarda il fuoco scoppiettante sente lo stomaco tendersi per l'ansia e la tristezza. Ha urgenza di trovare una ragione e pensa che non avrà pace finché non l'avrà trovata; ma più riflette sul tormentoso mistero della vita e della morte, più sprofonda nell'angoscia esistenziale.

In termini neurobiologici, il capotribù in gramaglie ha le stesse risposte eccitatorie del cacciatore spaventato dal ramo spezzato. Tutto inizia nel cervello quando l'amigdala rileva, nel processo di pensiero dell'emisfero sinistro, un senso di frustrazione dovuto alla meditazione intensa e prolungata del capotribù. Interpretandolo come un segno di angoscia, induce una risposta limbica di paura e invia segnali neurali che attivano il sistema simpatico. Ora, mentre il capotribù continua a macerarsi nel dolore e nella tristezza, la risposta eccitatoria s'intensifica: il polso accelera, il  respiro si fa rapido e poco profondo e la fronte s'imperla di sudore.

Meditando sui suoi problemi il capotribù fissa con aria vacua il fuoco, che presto brucia fino alle braci. Quando le fiamme si spengono tra gli ultimi crepitii, ha un'intuizione: il fuoco un tempo era vivo e luminoso, ma adesso è spento e presto resteranno solo grigie ceneri inerti. Quando le ultime volute di fumo salgono al cielo, il capo si volta verso il corpo dell'amico morto e pensa che la sua vita e il suo spirito siano scomparsi come sono scomparse le fiamme. Prima di esprimere consciamente quel pensiero è colpito da un'immagine: l'intima essenza dell'amico sale come il fumo in alto, come lo spirito del fuoco ascende al cielo.

La convinzione nasce come un'idea qualsiasi, una delle tante ipotesi emerse durante la disamina condotta dall'emisfero cerebrale sinistro. Nel contempo l'emisfero destro propone soluzioni olistiche, intuitive, non verbali al problema. Quando il concetto astratto dell'ascesa dello spirito al cielo affiora alla coscienza del capotribù, esso si "accoppia" con una delle soluzioni emozionali dell'emisfero destro. Di colpo l'accordo di entrambi gli emisferi induce una risonanza neurale che invia scariche positive in tutto il sistema limbico per stimolare i centri del piacere nell'ipotalamo. Poiché l'ipotalamo regola il sistema nervoso autonomo, i forti impulsi di piacere provocano una risposta del sistema parasimpatico, con la conseguenza che il capotribù si sente invaso da un gran senso di pace e serenità.

Tutto ciò accade in una frazione di secondo, troppo in fretta perché la risposta simpatica indotta inizialmente dall'ansia cessi. Per un significativo momento, i sistemi simpatico e parasimpatico sono attivi simultaneamente e precipitano il capotribù in una condizione strana: un misto di paura e rapimento, un turbamento assai piacevole che alcuni neurologi chiamano «la risposta Eureka» e che il capotribù vive come un'ondata di estasi e timore reverenziale.

In quel lampo di comprensione e liberazione, egli viene all'improvviso affrancato dal dolore e dalla disperazione; e, in un senso più profondo, sente essersi scrollato di dosso le catene della morte.

L'intuizione è così fulminante da parergli una rivelazione; l'esperienza gli sembra reale in maniera vivida e tangibile. In quel momento gli opposti "vita" e "morte" hanno cessato di essere in irreparabile conflitto e sono stati risolti a livello mitico. Ora il capo vede chiaramente la verità assoluta delle cose: gli spiriti dei morti continuano a vivere.

Egli pensa di avere scoperto una verità fondamentale, di avere avuto ben più di una semplice idea: la sente infatti come una convinzione arrivata da dentro, dai recessi più intimi della mente.

Come la storia del leopardo tra gli alberi, l'intuizione del capotribù sul destino finale dell'anima può essere o non essere vera: l'importante è capire se si innesta su qualcosa di più profondo della mera fantasia o del pio desiderio. Siamo convinti che tutti i miti durevoli siano assai efficaci perché attingono a "illuminazioni" sorrette da un substrato neurale, come nel caso del capotribù del nostro esempio. Le illuminazioni possono assumere varie forme ed essere indotte da una quantità di idee. Il capotribù, per esempio, potrebbe avere visto un filo di nebbia salire verso la vetta della montagna al chiaro di luna e aver concluso che, come quella strana nebbia, gli spiriti dei morti vanno ad abitare nei sacri monti. Qualsiasi ipotesi può favorire la genesi di un mito se sa coniugare logica e intuizione e se sa condurre a uno stato di accordo gli emisferi sinistro e destro. Quando nell'intero cervello si instaura quella particolare armonia, le angosce che mettevano a dura prova il sistema nervoso sono assai alleviate, perché gli opposti vengono conciliati e il problema della causa è risolto. Alla mente ansiosa l'accordo completo tra i due emisferi fa l'effetto di un lampo di verità assoluta: è una verità che le sembra non solo di comprendere, ma anche di vivere, ed è proprio questa visceralità dell'esperienza a trasformare le idee in miti.

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Sorgono allora un paio di domande ovvie, ma interessanti. Perché, di tutte le possibili idee, quella dell'anima che sale al cielo produce una così forte risonanza olistica nella mente del capotribù che piange l'amico e perché la medesima idea produce una reazione simile anche negli altri membri del clan? O, più in generale: perché i miti di tutte le civiltà del mondo si assomigliano in maniera così costante e sorprendente? I saggi sulla mitologia firmati da vari studiosi, di cui Joseph Campbell è solo il più famoso e il più letto, mostrano chiaramente come in tutte le civiltà di tutte le epoche si ripresentino sempre gli stessi temi mitici: parti di donne vergini, diluvi purificatori, terre abitate dai morti, uomini cacciati dal paradiso o inghiottiti da balene e serpenti, eroi morti e risorti, eroi umani che rubano il fuoco fino ad allora appannaggio degli dei.

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Carl Gustav Jung pensava che i miti fossero l'espressione simbolica di idee archetipiche: forme ereditarie di pensiero universalmente presenti nei profondi recessi di ogni mente umana.

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Siano o meno veri gli archetipi descritti da Jung, conveniamo che i miti sono il portato di strutture neurali di base proprie di tutti gli esseri umani, in particolare dei processi attraverso i quali il cervello comprende il mondo. Benché la cultura e la psicologia possano esercitare in questo campo una notevole influenza, sono le basi neurali a conferire alle storie mitiche il loro potere durevole e a renderle così autorevoli da mitigare le nostre angosce esistenziali.


A. Newberg - E. d'Aquili, Dio nel cervello, Mondadori, 2002 (ed. or. 2001), pp. 67-81 [ho omesso le note].

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