Il senso del tragico e la valorizzazione dell'attimo fuggente presso i Greci

Vista in prospettiva ebraico-cristiana, la religione greca sembra costituirsi all'insegna del pessimismo: l'esistenza umana è per definizione effimera e sovraccarica di affanni. Omero paragona l'uomo alle « foglie che il vento getta a terra » (Iliade, VI, 146 ss.) e questo paragone è ripreso dal poeta Mimnermo di Colofone (VII secolo) nella sua lunga enumerazione delle sventure: povertà, malattie, lutti, vecchiaia, ecc. « Non esiste uomo a cui Zeus non invii mille mali ». Per il suo contemporaneo Simonide gli uomini sono « creature di un giorno », che vivono come animali, « senza sapere per quale via Dio condurrà ciascuno di noi al suo destino ». Una madre pregò Apollo di ricompensare la sua pietà, facendo ai suoi figli il dono più grande che fosse in suo potere; il dio acconsentì, e i bambini si spensero all'istante, senza soffrire (Erodoto, I, 31, 1 ss.). Teognide, Pindaro e Sofocle affermano che la sorte migliore per gli uomini sarebbe di non essere nati, oppure, una volta nati, di morire il più in fretta possibile.

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Questa concezione pessimistica s'impose fatalmente quando il Greco prese coscienza della precarietà della condizione umana. Da un lato l'uomo non è, strictu sensu, la 'creatura' di una divinità (idea condivisa da molte altre religioni arcaiche e dai tre monoteismi); di conseguenza non osa sperare che le sue preghiere potranno stabilire una certa 'intimità' con gli dèi. Dall'altro lato egli sa che la sua vita è già decisa dal destino, la moira  o l'aisa, la 'sorte' o la 'porzione' che gli fu attribuita - vale a dire, insomma, il tempo assegnatogli fino alla morte. La morte veniva, quindi, decisa al momento della nascita; la durata della vita era simboleggiata dal filo tessuto dalla divinità.

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L'uomo dispone, in definitiva, solo dei propri limiti, quelli che gli sono assegnati dalla sua condizione umana e, in particolare, dalla sua moira. La saggezza comincia con la coscienza della finitezza e della precarietà della vita umana. Si tratta, dunque, di approfittare di tutto ciò che ci può offrire il presente: giovinezza, salute, gioie fisiche od occasioni di mettere in pratica le virtù. È  questa la lezione di Omero: vivere totalmente, ma nobilmente, nel presente. Certo questo 'ideale' sorto dalla disperazione sarà sottoposto a modificazioni; e più avanti ne esamineremo le più importanti [...] Ma la coscienza dei limiti predestinati e della fragilità dell'esistenza non è mai stata offuscata. Lungi dall'inibire le forze creatrici del genio religioso greco, questa visione tragica ha condotto ad una paradossale rivalutazione della condizione umana. Dal momento che gli dèi l'hanno costretto a non oltrepassare i propri limiti, l'uomo ha finito per realizzare la perfezione e, pertanto, la sacralità della condizione umana. In altre parole egli ha riscoperto e perfezionato il senso religioso della 'gioia di vivere', il valore sacramentale dell'esperienza erotica e della bellezza del corpo umano, la funzione religiosa di ogni festeggiamento organizzato collettivamente - processioni, giochi, danze, canti, competizioni sportive, spettacoli, banchetti, ecc. Il senso religioso della perfezione del corpo umano - la bellezza fisica, l'armonia dei movimenti, la calma, la serenità - valse ad ispirare il canone artistico. L'antropomorfismo degli dèi greci, quale lo possiamo cogliere nei miti e che sarà più tardi aspramente rimproverato dai filosofi, ritrova il suo significato religioso nella statuaria divina. Paradossalmente, una religione che proclamava la distanza irriducibile tra il mondo divino e quello dei mortali, considera la perfezione del corpo umano come la rappresentazione più adeguata degli dèi.

L'elemento che più mi preme sottolineare è però la valorizzazione religiosa del presente; il semplice fatto di esistere, di vivere nel tempo, comporta già una dimensione religiosa. Non sempre essa emerge in modo evidente perché la sacralità è in un certo qual modo 'camuffata' nell'immediato, nel 'naturale' e nel quotidiano. La 'gioia di vivere' scoperta dai Greci non è un godimento di tipo profano: rivela la beatitudine di esistere, di partecipare - anche in modo fuggevole - alla spontaneità della vita e alla grandiosità del mondo. Come tanti altri prima e dopo di loro, i Greci hanno appreso che il mezzo più sicuro di sfuggire al tempo è quello di sfruttare fino in fondo la ricchezza - a prima vista insospettabile - dell'attimo fuggente.

La sacralizzazione della finitezza umana e della 'banalità' di un'esistenza 'ordinaria' rappresenta un fenomeno relativamente frequente nella storia delle religioni. Soprattutto in Cina e nel Giappone del primo millennio della nostra era la sacralizzazione dei 'limiti' e delle 'circostanze' - di qualunque natura - ha raggiunto il suo apice e ha influenzato profondamente le rispettive culture. Proprio come nella Grecia antica, dove questa trasformazione del 'dato naturale' si è tradotta in un'estetica particolare.


Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose. 1. Dall'età della pietra ai Misteri Eleusini, Sansoni, 1990 (ed. or. 1975), pp. 284-288 [ho omesso le note].

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