Caratteri specifici della religiosità romana

La disposizione ametafisica e il vivissimo interesse (di natura religiosa!) per le realtà immediate, sia cosmiche che storiche, si manifestano ben presto nell'atteggiamento dei Romani nei confronti delle anomalie, delle sventure o delle innovazioni. Per i Romani, come per le società rurali in genere, la norma ideale si manifestava nella regolarità del ciclo annuale, nel susseguirsi ordinato delle stagioni. Qualsiasi innovazione radicale equivaleva a una violazione della norma e, in ultima analisi, comportava il rischio di un ritorno al caos [...]. Del pari, ogni anomalia - prodigi, fenomeni insoliti (nascita di mostri, pioggia di pietre ecc.) - stava a indicare una crisi dei rapporti fra gli dèi e gli uomini: i prodigi proclamavano il malcontento o addirittura la collera degli dèi; i fenomeni aberranti equivalevano a manifestazioni enigmatiche degli dèi e, da un certo punto di vista, si riteneva che esse costituissero delle 'teofanie negative'.

Anche Jahvè annunciava i suoi disegni mediante fenomeni cosmici o avvenimenti storici: i profeti non cessavano di commentarli sottolinenando le terribili minacce da essi preannunciate [...]. Per i Romani il significato preciso dei prodigi non era evidente, ma doveva invece essere decifrato dai professionisti del culto: si spiega così l'importanza considerevole delle tecniche divinatorie e il rispetto misto a timore di cui godevano gli aruspici etruschi e, più tardi, i Libri Sibillini e altre raccolte oracolari. La divinazione consisteva nell'interpretare i presagi visti (auspicia) o sentiti (omina). Soltanto i magistrati e i capi militari erano autorizzati a spiegarli, ma i Romani si erano riservati il diritto di rifiutare i presagi (cfr., per esempio, Cicerone, De divinazione, I, 29); un certo console, che era anche àugure, si faceva trasportare in una lettiga chiusa allo scopo di ignorare i segni che avrebbero potuto contrastare i suoi piani (De div., II, 77). Dopo che il significato del prodigio era stato svelato, si procedeva a lustrazioni e ad altri riti di purificazione, poiché queste 'teofanie negative' avevano denunciato la presenza di una impurità, che doveva essere accuratamente allontanata.

Di primo acchito, il timore esagerato dei prodigi e delle impurità potrebbe essere interpretato come una paura ingenerata dalla superstizione, ma si tratta invece di un tipo particolare di esperienza religiosa, e proprio attraverso tali manifestazioni insolite si instaura il dialogo fra gli dèi e gli uomini. Questo atteggiamento dinanzi al sacro è conseguenza diretta della valorizzazione religiosa delle realtà naturali, delle attività umane e degli avvenimenti storici, insomma del concreto, del particolare e dell'immediato. Un altro aspetto di questo comportamento è costituito dal proliferare dei riti. Poiché la volontà divina si manifesta hic et nunc in una serie illimitata di segni e di incidenti insoliti è necessario sapere quale sarà il rituale più efficace. La necessità di riconoscere fin nei dettagli le manifestazioni specifiche di tutte le entità divine ha dato l'avvio a un processo di personificazione piuttosto complesso. Le molteplici epifanie di una divinità, come anche le sue diverse funzioni, tendono di conseguenza a distinguersi in quanto 'persone' autonome.

In certi casi queste personificazioni non giungono a comporre una vera e propria figura divina; le si evoca una dopo l'altra, ma sempre in gruppo. Così, per esempio, l'attività agricola si svolge sotto il segno di un certo numero di entità, ciascuna delle quali presiede a un momento particolare: dal rivolgimento del maggese e dall'aratura a larghi solchi fino alla mietitura, al trasporto e all'immagazzinamento. Allo stesso modo, come ha ricordato con umorismo Sant'Agostino (Civit. Dei, VII, 3), si invocava Vaticanus e Fabulinus per aiutare il neonato a vagire e a parlare, Educa e Polina per farlo mangiare e bere, Abeona per insegnargli a camminare ecc., ma queste entità soprannaturali sono invocate soltanto in relazione ai lavori agricoli, e nel culto privato. Esse mancano di una vera personalità, e la loro 'potenza' non supera la sfera limitata in cui esse agiscono. Sotto il profilo morfologico, queste entità non condividono la condizione degli dèi.

La mediocre immaginazione mitologica dei Romani e la loro indifferenza verso la metafisica sono compensate, come abbiamo visto, dal loro interesse appassionato per il concreto, il particolare e l'immediato. Il genio religioso romano si distingue per il pragmatismo, per la ricerca dell'efficacia e, soprattutto, per la 'sacralizzazione' delle collettività organiche: famiglia, gens, patria. La famosa disciplina romana, la fedeltà agli impegni (fides), la dedizione allo Stato, il prestigio religioso del Diritto si traducono nella svalutazione della persona umana: l'individuo contava soltanto nella misura in cui apparteneva al suo gruppo. Fu solo più tardi, sotto l'influenza della filosofia greca e dei culti soteriologici orientali, che i Romani scoprirono l'importanza religiosa della persona; ma questa scoperta, che avrà conseguenze considerevoli [...], ha interessato soprattutto le popolazioni urbane.

Il carattere sociale della religiosità romana, in primo luogo l'importanza attribuita ai rapporti con gli altri, è chiaramente espresso nel termine pietas. Nonostante i suoi rapporti con il verbo piare (pacificare, cancellare un'impurità, un cattivo presagio ecc.), la pietas designa l'osservazione scrupolosa dei riti, ma anche il rispetto dei rapporti naturali (cioè disposti secondo la norma) fra gli esseri umani. Per un figlio, la pietas consiste nell'obbedire al padre; la disobbedienza equivale a un atto mostruoso, contrario all'ordine naturale, e il colpevole deve espiare questa impurità con la morte; accanto alla pietas verso gli dèi, esiste la pietas verso i membri del gruppo cui si appartiene, verso la città e, infine, verso tutti gli esseri umani. Il « diritto delle genti » (jus gentium) prescriveva dei doveri anche verso gli stranieri. Questa concezione raggiunse la sua compiutezza « sotto l'influenza della filosofia ellenica, allorché si venne a delineare con chiarezza la concezione dell'humanitas, l'idea cioè che il solo fatto di appartenere alla specie umana costituisse già di per sé una vera e propria parentela, analoga a quella che legava i membri di una stessa gens o di una stessa città e che comportava doveri di solidarietà e d'amicizia o, perlomeno, di rispetto »1. Le ideologie 'umanitarie' dei secoli XVIII e XIX si limiteranno a riprendere ed elaborare, pur desacralizzandola, l'antica concezione della pietas romana.

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1. P. GRIMAL La civilisation romaine, 1960, p. 89. Contro l'ipotesi 'politica' di LATTE sulla Pietas (Römische Religiongeschichte, pp. 236-239), v. P. BOYANCÉ, La religion de Virgile, p. 58; DUMÉZIL, La rel. rom. arch.. p. 400).


Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose. 2. Da Gautama Buddha al trionfo del cristianesimo, Sansoni, 1990, pp. 117-120 [Ho omesso alcune note ].

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