Il concetto di "atai", il contenitore alternativo dell'anima

L'anima magica non ha carattere trascendente, ma è intimamente connessa colla struttura fisiologica dell'uomo, secondo una concezione che si avvicina a quella ilozoistica della natura ed è un bene che va difeso con ogni mezzo. Quale strumento di difesa del principio animico, soggetto agli appetiti altrui ed alle minacce del mondo circostante, l'umanità primitiva ha creato un istituto magico, che ha un'importanza fondamentale: l'atai.

Dobbiamo questo termine, come quello di mana, a Codrington, che studiò l'anima magica nell'isola di Mota, dove gl'indigeni le danno appunto questo nome. Ma, come per il mana, la terminologia impiegata è varia, a seconda dei termini usati dai singoli popoli, unico essendone tuttavia il significato essenziale: nagual, nel Messico, manitu, presso gli indiani Algonkini, Okki, presso gli Uroni, Tamaniu, nelle isole Aurora e così via. Presso gli antichi Germani l'atai era chiamato Fylgi, ed era uno spiritello al seguito dell'uomo, nella forma di un topino, che si allontanava nel sonno e che, se smarriva la via del ritorno, lo lasciava privo di vita, morto nel sonno, che ancor oggi si dice maûsetot: morto come un topo.

L'essenza dell'istituto magico dell'atai risiede appunto in questo, nell'associazione tra un uomo e un animale, o un oggetto inanimato, nel quale è fatta risiedere l'anima vitale di lui, per sottrarla ai pericoli della vita. L'atai è una specie di deposito dell'anima vitale, e quindi un doppio dell'uomo medesimo, col quale egli è intimamente legato. Non è escluso che alla formulazione di questo istituto magico abbia contribuito l'esperienza del doppio medianico. Bisogna pensare infatti che queste concezioni sono frutto dell'inventiva dei singoli uomini, ed è certo che i più ricchi di personalità e fantasia, gli stregoni, ne furono gli autori originari, per cui trasferirono le loro particolari esperienze paranormali anche in queste creazioni.

Tracce evidenti di questo istituto, oltre che dalle ricerche etnologiche, ci appaiono nello studio del folclore e della favolistica, come pure nelle rappresentazioni iconografiche simboliche, conservatesi nel seno delle religioni più evolute.

In Frazer si può trovare un'imponente documentazione su questo tema. Il motivo del mago o del gigante, resi invulnerabili per aver celato la propria anima in un luogo segreto, in un oggetto, albero o animale, è motivo diffusissimo nella favolistica; mentre altri miti analoghi, come quello di Achille o di Sansone, parlano della localizzazione dell'anima dell'eroe in una parte del suo stesso corpo, il tallone o i capelli. Si parla in altri miti della localizzazione dell'anima in un amuleto, ma il caso più frequentemente citato è quello della localizzazione in un animale.

L'animale atai può essere un dato animale, o una specie intera di animali, che non si distinguono tra di loro. In tal caso l'intera specie va rispettata, perché ad essa sono legate le sorti dell'individuo. E se l'atai è invece un dato animale, in tal caso bisogna assicurarsi che questo, in particolare, si mantenga in buone condizioni.

Non bisogna pensare che il rapporto tra uomo e animale atai sia qualcosa di assolutamente illusorio. In tal modo lo si intende presso quei popoli che conservano tracce di questi antichi istituti solo nella forma di morte tradizioni, oggetto della favolistica e del folclore. Ma non è certo così per coloro che vivono con diretta intensità queste esperienze. Sono frequenti e documentati i casi che lo provano.

In seguito alla morte dell'atai animale, o alla distruzione di quello materiale, è stata controllata di frequente la consecutiva morte dell'intestatario, e non solo nel caso che l'annientamento dell'atai fosse stato conosciuto dall'interessato, ma anche nel caso della sua completa ignoranza dell'evento. A questo proposito Fontaine1 cita un'abbondante casistica, ed emette l'ipotesi di un'intensa comunicazione telepatica tra uomo ed animale.

[...]

Nel caso del nome magico, questo viene inteso come uno degli atai della persona indicata, come un suo doppio vitale. Sappiamo infatti che il concetto primitivo di individualità non corrisponde al nostro e che nei limiti di essa si comprendono, da parte dell'uomo primitivo, anche elementi che noi riteniamo ad essa estranei. Tra questi elementi, che fanno corposamente parte del tutto, vi è il nome. Nel nome si contiene così magicamente l'essenza vitale dell'individuo, e quindi il possedere il nome di lui vale avere in proprio possesso l'individuo medesimo. Per questo motivo i primitivi hanno in genere due nomi, uno, quello vero, dato loro al momento della nascita, segreto, e l'altro d'uso pubblico.

A questo proposito un nostro amico ci riferiva un episodio significativo, occorsogli durante la guerra. Un giorno un soldato dell'Italia meridionale, a lui molto affezionato, gli si avvicinò in gran segreto e gli comunicò il nome della propria moglie, volendo con questo certamente dargli una prova concreta del suo attaccamento per lui. Un po' sorpreso il nostro amico gli rispose dandogli il nome della sua, al che il soldato si dimostrò addirittura commosso da questa prova di fiducia, e si allontanò annunciando a gran voce ai compagni il grande onore ricevuto e rispondendo minacciosamente a coloro che gli chiedevano quale fosse il nome che gli era stato confidato. In questo suo atteggiamento - si trattava di un semplice di spirito - si rispecchiava certamente un'antica reminiscenza magica.

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1. Fontaine, La magie chez les noirs, Paris, 1949, pp. 71 e 75.


Carlo Tullio-Altan, Lo spirito religioso del mondo primitivo, Il Saggiatore, 1960, pp. 102-104 e 113-114 [note omesse, tranne una].

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