Il giudizio di A. Brelich su K. Kerényi

Dell'ammirazione che, da studente, provavo per Kerényi, ho già scritto all'inizio di queste memorie: ora aggiungo che sarebbe inesatto pensare, però, che quell'ammirazione avesse annullato ogni margine di distanza. Mi ricordo ancora come spesso sorridessimo (perché non ero l'unico a farlo) di certi atteggiamenti del «maestro», troppo esaltati, a volte lievemente grotteschi che non potevano sfuggire a un elementare senso dell'umorismo. C'era tra di noi una notevole differenza di carattere e di sensibilità, che si accentuava con il tempo, specie quando io avevo tanti dubbi, in particolare nei confronti di me stesso, e vedevo lui che credeva incrollabilmente in se stesso e non cessava di prendersi estremamente sul serio. Ma finché io non scoprii la mia linea  metodologica, non avevo, sul piano scientifico, nulla da opporre al suo indirizzo e continuavo a credere che la sua genialità aprisse chissà quali strade imbattute verso la conoscenza della religione greca: fu solo con la  mia presa di coscienza che, anche sotto quell'aspetto, mi allontanai con vertiginosa rapidità dalle sue idee. Restavano la gratitudine e i legami della vecchia familiarità.

Kerényi veniva ogni anno a Roma, spesso anche due volte nello stesso anno; lavoravamo nella stessa biblioteca (quella dell'Accademia Americana) e avevamo ampie occasioni di conversare. Ma c'intendevamo sempre di meno. Il crescente disaccordo si manifestava contemporaneamente su tre piani: su quello scientifico, perché ero diventato insofferente delle sue affermazioni apodittiche, fatte in tono oracolare o di rivelazione, e di quella che, parlando con lui, scherzosamente definivo come «la sua fede nelle divinità greche»; sul piano politico - e ciò, per me, era molto più urtante del disaccordo scientifico -, perché lui che pure si era rifugiato in Svizzera davanti al nazismo ungherese e che da ragazzi avevamo considerato come uno spirito libero e progressista, ora si era spostato rapidamente su posizioni reazionarie, di un anticomunismo veramente «viscerale» e, peggio ancora, di un filoamericanismo di stampo foster-dullesiano; infine, sul piano umano, perché la sua sicurezza di sé ora arrivava a livelli paranoidi: non gli si poteva più parlare di un altro studioso - che si trattasse di Pettazzoni o di Eliade, di Dumézil o di De Martino, - senza che egli lo qualificasse immediatamente «una bestia» o «un imbecille».


Angelo Brelich, Storia delle religioni: perché?, Liguori, 1979, pp. 72-73.

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