Sul metodo comparativo e sulla fenomenologia nella storia delle religioni

[...] stando agli orientamenti attuali, non è sulla comparazione in generale che incombe la minaccia della fine: è, invece, proprio sulla comparazione storica. L'indirizzo di Pettazzoni mal compreso o piuttosto non compreso affatto, se apparentemente viene rinnegato per quello che ha di tradizionale e, se vogliamo, di invecchiato, in realtà è minacciato nel suo elemento più vitale e più moderno. Infatti, la comparazione è, inevitabilmente, pane quotidiano anche dei fenomenologi: solo in base alla comparazione si può giungere ai pretesi archetipi generalmente umani, alla definizione di una struttura arcaica del pensiero, erede diretta della «mentalità primitiva» di Lévy-Bruhl. Stabilendo posizioni archetipiche caratteristiche, indistintamente, di ogni civiltà arcaica, e quindi valide fuori del tempo, la fenomenologia religiosa sottrae la religione alla storia e contemporaneamente alla sfera umana.

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Si è portati quasi a rimpiangere i tempi in cui la polemica si svolgeva solo tra uno storicismo d'orientamento laico e un fideismo religioso. Quando uno studioso cattolico nostrano (che tuttora è impegnato negli sforzi tesi a quella quadratura del circolo la cui soluzione gli permetterebbe di richiamarsi alla scuola di Pettazzoni e di rimanere nello stesso tempo cattolico militante) ripeteva instancabilmente che lo storicismo era un'opzione filosofica, cioè un preconcetto (leggi: non meno ingiustificato e scientificamente compromettente dei preconcetti fideistici), era fin troppo facile ribattere che, comunque, al mestiere dello storico l'«opzione» storicista era più confacente di ogni altra: lo storico, in quanto tale, cerca, ed esclusivamente, le ragioni storiche, cioè umane, di ogni formazione culturale (e perciò anche religiosa) e abdicherebbe al suo mestiere nel momento stesso in cui ammettesse la sola possibilità di un intervento di fattori sovrumani nella storia o fondasse giudizi su valori «assoluti» prestabiliti da Dio o chi per lui.

Neanche a un certo psicologismo (specie junghiano) era difficile opporre argomenti piuttosto ovvi, almeno quando cadeva in ingenuità, sostenendo la validità universale di certi «archetipi» nelle religioni, che risultavano palesemente condizionati dalla storia (come p.es. la «Grande Madre» con certi suoi connotati agrari, inconcepibile p.es. in una religione di cacciatori-raccoglitori). Del resto, è sufficientemente nota anche la discussione dell'universalità del freudiano «complesso di Edipo» - con i suoi riflessi religiosi - da parte di chi ha studiato l'organizzazione di alcune società («matriarcali») in cui alla posizione del padre non si associa un'autorità nei riguardi del figlio.

Più complessa era la situazione di fronte al fenomenologismo che, da una parte, si presentava come teoricamente indipendente da condizionamenti religiosi, dall'altra riconosceva esplicitamente una latitudine notevole ai fattori storici, facendo risalire solo le ultime (e più generiche) radici di ogni fenomeno religioso alla comune e universale natura dell'homo religiosus: ma l'apparente impostazione laica (là dove se ne potesse parlare) non era che il travestimento di comodo di una soggiacente teologia e il riconoscimento della storicità delle singole formazioni religiose non era che una concessione, con precisa funzione di sottrarne alla storia quelle «ultime radici»: l'homo religiosus era lì, eterno - vario nelle sue manifestazioni storicamente condizionate, ma uguale e immutabile creatura di Dio nella sua costanza.

Non è in queste frettolose pagine che si possa impostare un discorso articolato sullo strutturalismo che, del resto, finora non ha investito che aree parziali della storia delle religioni: comunque, noi di SMSR [Studi e Materiali di Storia delle Religioni, rivista fondata da Pettazzoni] ci ripromettiamo di parlarne al più presto. Dallo strutturalismo, ad ogni modo, sembra assente ogni ipoteca religiosa. Esso non lavora né con verità assolute, né con archetipi psichici, né con l'idea implicita dell'uomo creaturale. Esso non si chiede, in realtà, come sia avvenuto il decisivo passo dalla «natura» alla «cultura», ma certo non lo risolve fideisticamente in un atto di creazione divina: nelle sue ricerche concrete noi intravediamo, anzi, il farsi della «cultura» nel suo creativo distaccarsi - ad ogni livello - da quel «dato» che sembra essere la «natura»; nulla di più eccitante, per lo storicista. Ma ecco che, compiuto il grande passo, il mondo umano si ferma. Dietro l'infinita varietà delle singole culture si rivela una trama strutturale unica: tutte le combinazioni sono possibili - purché siano di quegli elementi (finiti!) di cui è composto il disegno-base. La storia non è, in fondo, che il lento girare di un caleidoscopio - o contemporaneamente di più caleidoscopi uguali - in cui gli stessi pezzetti di vetro si compongono in sempre nuove, ma non inesauribili, formazioni regolari. Non c'è via di uscita. Gli «avvenimenti» storici determinano come giri il caleidoscopio - ma questo resta sempre uguale, fuori della storia.


Angelo Brelich, Storia delle religioni: perché?, Liguori, 1979, pp. 130 e 207-208. [Chiose tra parentesi quadre mie].

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