Il dio che è fallito

[Questa raccolta di testimonianze sul comunismo si basa sul racconto di chi abbracciò con grande slancio l'ideologia bolscevica, salvo poi doversi amaramente ricredere di fronte al fallimento totale del progetto originario. Ma la grande lezione di questa raccolta ha attinenza con la psicologia sociale e fa eco alle considerazioni ormai classiche di un Le Bon o di un Freud. Qui vi è la testimonianza dal di dentro di come si forma e si mantiene una visione falsata delle cose: ogni delitto, ogni menzogna diventano così le tappe dolorose ma "necessarie" per la costruzione della società futura, fino al punto da rendere completamente insensibile la coscienza di fronte all'orrore e al fatto stesso che della società futura immaginata non vi è, a distanza di decenni, la più pallida parvenza. Il comunismo è dunque una visione mistico-religiosa della realtà. Il comunista, come Don Chisciotte, non vede più la realtà ma una sua versione trasfigurata dall'ideologia [e qui vengono in mente anche le considerazioni di Popper sul tema]. Pochi furono in grado di uscire dal sogno in un'epoca - la data di pubblicazione originaria della raccolta è il 1949 - in cui il prestigio politico del comunismo, reduce dalla vittoria sul nazi-fascismo, era al culmine della sua parabola.
Ne ricopio qui alcuni tra i passaggi più significativi. I titoli dei brani sono miei]


L'approdo alla "fede".

[...] cominciai per la prima volta a leggere Marx, Engels e Lenin sul serio. Quando terminai Feuerbach e Stato e Rivoluzione, qualcosa scattò nel mio cervello, scuotendomi tutto come un'esplosione. Dire che si è «vista la luce» significa descrivere miseramente il rapimento mentale che soltanto il convertito conosce (indipendentemente dalla fede a cui si è volto). La nuova luce sembra riversarsi da ogni direzione attraverso il cranio, e l'universo intero si dispone ordinatamente e coerentemente come se, per magia, i pezzi dispersi di un gioco di pazienza andassero a posto d'un colpo. adesso ogni domanda ha la sua risposta; dubbi e conflitti appartengono al tormentoso passato - un passato già lontano, in cui la vita trascorreva in una cupa ignoranza, nel mondo insipido e sbiadito di coloro che non sanno. Nulla d'ora in poi può turbare la pace interiore e la serenità del convertito - salvo il timore che di tanto in tanto lo coglie di perdere nuovamente la fede, perdendo così ciò che soltanto rende la vita degna di essere vissuta, per ricadere nell'oscurità esterna, dove c'è pianto e stridore di denti. [A. Koestler, p. 44].

[...]

Il consenso di principio dato a una causa ha per l'adepto più forza vincolante di tutti i fatti, tranne i più spaventosi, che egli possa venire ad apprendere su quella causa. Come sulla convinzione religiosa non fanno presa le argomentazioni logiche (e infatti la religione non è il risultato di un processo logico), come il sentimento nazionalistico o gli affetti personali sfidano la più chiara evidenza, così la mia posizione filosovietica si fece presto del tutto indipendente dagli avvenimenti quotidiani. Consideravo ogni fatto che potesse recar danno ad un giudizio sulla Russia come effimero, interpretato in mala fede o annullato da altri fatti più significativi e di maggior peso. Studiavo con attenzione la situazione in Russia e ne riferivo fedelmente; talvolta gli avvenimenti non testimoniavano a favore del bolscevismo. Ma ciò non indeboliva il mio attaccamento al sistema sovietico, o la mia fede nel suo radioso futuro. [L. Fischer, pp. 231-232].


La realtà alla luce dell'ideologia comunista: ragionamento "meccanicistico" versus ragionamento "dialettico".

Un giorno appresi fra le notizie passate da Reiner, il corrispondente diplomatico della «Vossische Zeitung», che la polizia prussiana avrebbe effettuato una sorpresa nelle sezioni delle Sa il mattino dopo alle sei, si sarebbe impadronita delle armi ed archivi in loro possesso, e avrebbe vietato l'uso della uniforme nazista. Trasmisi in fretta la notizia a Paula ed Edgar. L'azione ebbe luogo secondo i piani, ma mentre tutta Berlino febbrilmente discuteva le probabilità di immediata guerra civile fra nazisti e socialisti, il nostro giornale comunista «Rote Fahne» uscì con la sua solita manchette ironizzante sulla tolleranza del governo socialdemocratico per i nazisti, coprendosi così completamente di ridicolo. Chiesi ad Edgar perché non si fosse tenuto conto del mio avvertimento; egli spiegò che l'atteggiamento del Partito nei confronti dei socialdemocratici faceva parte di una politica stabilita e a lunga scadenza, che non poteva essere rovesciata da un trascurabile incidente. «Ma ogni parola della prima pagina è contraddetta dai fatti» obiettai. Edgar mi sorrise in modo tollerante. «Tu hai ancora una concezione meccanicistica», disse, e quindi si accinse a darmi un'interpretazione dialettica dei fatti. L'azione della polizia era una pura e semplice finta per nascondere la sua complicità; anche se alcuni capi socialisti erano soggettivamente antifascisti nella loro concezione, obbiettivamente il partito socialista era uno strumento del nazismo; in effetti, i socialisti erano i peggiori nemici, perché avevano spezzato l'unità della classe lavoratrice. Già convinto, io obiettai - per salvare la faccia - che, dopo tutto, era stato il Pc a scindersi dai socialisti nel 1919. «Ecco ancora la concezione meccanicistica», disse Edgar, «formalmente ci trovavamo in minoranza, ma eravamo noi ad incarnare la missione rivoluzionaria del proletariato; rifiutandosi di seguire la nostra guida, i capi socialisti spezzarono l'unità della classe lavoratrice e diventarono i lacchè della reazione.»

A poco a poco appresi a diffidare della mia preoccupazione tutta meccanicistica per i fatti e a considerare il mondo intorno a me alla luce dell'interpretazione dialettica. era una condizione soddisfacente e beata; una volta assimilata la tecnica, non si era più turbati dai fatti; essi pigliavano automaticamente il colore giusto, e venivano a sistemarsi al giusto posto. Sia dal punto di vista morale che da quello logico, il Partito era infallibile: dal punto di vista morale, perché i suoi fini erano giusti, cioè, in accordo con la Dialettica della Storia, e questi fini giustificavano ogni mezzo; dal punto di vista logico, perché il Partito era all'avanguardia del Proletariato, e il Proletariato a sua volta l'incarnazione del principio attivo della Storia.

Gli avversari del Partito, dai reazionari di estrema destra ai socialfascisti, erano prodotti del loro ambiente, e le loro idee riflettevano le distorsioni della società borghese. I transfughi dal Partito erano anime perdute, uscite dalla grazia; discutere con loro, persino ascoltarli, voleva dire trafficare con le potenze del male.

I giorni della repubblica di Weimar erano contati, ciascuno di noi membri del Pc tedesco era già bollato per Dachau, Oranienburg o qualche altra allegra destinazione, ma noi ci muovevamo felici attraverso una nuvola di miraggi dialettici che mascheravano il mondo reale. Le belve fasciste erano le belve fasciste, ma la nostra preoccupazione principale era costituita dagli eretici troschisti e dagli scismatici socialisti. Nel 1931, Pc e nazisti si erano alleati nel referendum contro il governo socialista prussiano; nell'autunno del 1932 di nuovo essi si allearono nello sciopero dei lavoratori dei trasporti berlinesi. Heinz Neumann, il brillante capo del Pc, che aveva coniato il motto «colpite i fascisti ovunque li incontriate», che suonava indubbiamente ortodosso, era in disgrazia già prima della sua liquidazione e la linea del partito ondeggiò vertiginosamente, proprio come accadde prima del patto Molotov-Ribbentropp; ma il Partito aveva decretato che il 1932 avrebbe visto il trionfo della rivoluzione proletaria in Germania: noi avevamo fede, la vera fede, che non prende più le promesse divine troppo seriamente e, unici virtuosi in un mondo di disonesti, eravamo felici.

[...]

Perdemmo la partita perché non eravamo pescatori come pensavamo, ma esche penzolanti dall'amo. Ma non ci rendevamo conto di ciò, perché i nostri cervelli erano stati «ricondizionati» ad accettare ogni più assurda linea di condotta ordinata dall'alto come una nostra intima convinzione ed aspirazione. Avevamo rifiutato di presentare un candidato in comune con i socialisti per la Presidenza, e quando i socialisti appoggiarono come minor male Hindenburg contro Hitler, presentammo Thälmann, benché egli non avesse alcuna possibilità - se non quella, forse, di disperdere un tal numero di voti proletari da portare immediatamente Hitler al potere. Il nostro istruttore ci tenne una conferenza dimostrando che non esisteva un «minor male», che questo era un errore filosofico, strategico e tattico, una concezione troschista, diversionista, liquidatrice e controrivoluzionaria. E da allora avemmo soltanto pietà e disprezzo per coloro che anche soltanto pronunciassero la sinistra parola, convinti, inoltre, d'esser sempre stati convinti che questa era un'invenzione del diavolo. Come si poteva non vedere che farsi amputare le due gambe era meglio che cercar di salvarne una, e che la politica  rivoluzionaria corretta consisteva nel buttar via le malcerte stampelle della Repubblica? La fede è qualcosa di meraviglioso: non è soltanto capace di muover le montagne, ma anche di farvi credere che un'aringa è un cavallo da corsa.  [A. Koestler, pp. 53-55 e 63-64].


Il conformismo come virtù.

Quelli che mi parlavano nei ristoranti o negli scompartimenti ferroviari, usavano le espressioni stereotipate degli articoli di fondo della «Pravda»; si poteva credere che recitassero frasi apprese in un manuale di conversazione. Presi nota di ciò con un senso di approvazione: era un segno positivo di disciplina rivoluzionaria e di vigilanza bolscevica. [A. Koestler, p. 78].

[...]

Nell'Unione sovietica è ammesso a priori, e una volta per tutte, che su qualunque argomento non vi può essere che un'opinione, quella giusta. E ogni mattina la «Pravda» insegna alla gente quel che occorre sapere, quel che si deve credere e pensare. Durante il mio soggiorno, ero stupito di non vedere nei giornali nessuna allusione alla guerra civile in Spagna, il cui andamento, in quel periodo, preoccupava molto gli ambienti democratici. Espressi il mio doloroso stupore all'interprete, e notai in lui un certo imbarazzo. Mi ringraziò per l'osservazione e disse che avrebbe riferito a chi di ragione. Quella sera, al solito pranzo ufficiale, vi furono molti brindisi e discorsi, secondo il solito. Dopo che si ebbe bevuto alla salute di tutti gli invitati e di tutti gli ospitanti, uno di noi, Jef Last, si alzò e, in russo, brindò al trionfo della causa rossa sul fronte spagnolo. La compagnia applaudì imbarazzata, con scarso entusiasmo, ci parve, e replicò immediatamente con un brindisi a Stalin. Venuto il mio turno, alzai il bicchiere per i prigionieri politici in Germania: questa volta il brindisi fu applaudito a gran voce, con caldo entusiasmo, e di nuovo bevemmo alla salute di Stalin. Sulle vittime del fascismo in Germania e sull'atteggiamento da prendere, tutti i presenti erano perfettamente orientati. Ma sulla questione spagnola la «Pravda» non s'era ancora pronunciata ufficialmente, e i nostri ospiti non osavano dar segni d'approvazione prima di sapere quel che dovevano pensare. Solo pochi giorni dopo, quando giungemmo a Sebastopoli, un'immensa ondata di simpatia partì dalla Piazza Rossa e attraverso la «Pravda» si riversò su tutta la nazione. I cervelli dei cittadini sono ormai così ben allenati al conformismo che il consenso è diventato per loro facile e naturale - e non credo si tratti di ipocrisia - così che parlare con un russo è come parlare con tutti i russi. [A. Gide, pp. 211-212].


Come si arriva a giustificare l'ingiustificabile.

Vidi i disastri della carestia 1932-33 in Ucraina: orde di famiglie coperte di cenci mendicavano nelle stazioni, le donne sollevavano all'altezza dei finestrini i loro marmocchi affamati che con gli arti stecchiti, le grosse teste cadaveriche e le pance gonfie, sembravano feti estratti da vasi pieni di alcool; agli adulti spuntavano dalle ciabatte logore i pollici gelati. Si trattava, mi dicevano, di kulaki che si erano opposti alla collettivizzazione delle terre, ed io accettavo la spiegazione: erano nemici del popolo che preferivano l'accattonaggio al lavoro. La cameriera dell'hotel Regina a Kharkov svenne per la fame mentre mi riassettava la stanza; il direttore spiegò che da poco era giunta dalla campagna, e per un contrattempo amministrativo non aveva ancora ricevuto la sua carta annonaria; io accettai il contrattempo amministrativo.

Non potevo fare a meno di avvertire l'arretratezza asiatica del modo di vivere; l'apatia della folla nelle strade, nelle stazioni tramviarie e ferroviarie; le incredibili condizioni degli alloggi, che rendevano tutte le città industriali simili a un unico vasto miserabile quartiere (due o tre coppie si pigiavano in una stanza divisa da lenzuola appese alle corde della biancheria); o le razioni di fame distribuite dalle cooperative; o il fatto che il prezzo di un chilo di burro al mercato libero equivaleva allo stipendio medio  mensile di un operaio, il prezzo di un paio di scarpe a quello di due mesi. Ma avevo imparato che non bisogna valutare i fatti dall'esterno, non bisogna valutarli in modo statico, ma dinamico. Il tenore di vita era basso, ma sotto il regime zarista era stato ancora più basso. Le classi lavoratrici, è vero, stavano meglio nei paesi capitalistici che nell'Unione Sovietica, ma questo era un confronto statico; perché qui il livello cresceva rapidamente, là rapidamente precipitava. Alla fine del secondo piano quinquennale i due livelli si sarebbero adeguati: fino a quel giorno ogni confronto era ingannatore e dannoso per il morale del popolo sovietico. Conseguentemente, non soltanto accettavo la carestia come inevitabile, ma anche la necessità di proibire il commercio con l'estero, i libri e i giornali stranieri, e di diffondere un quadro della vita nei paesi capitalisti grottescamente deformato. Dapprima fui colpito quando dopo una conferenza mi furono poste delle domande di questo genere: «Quando avete lasciato la stampa borghese, vi è stata ritirata la carta annonaria e siete stato sfrattato immediatamente dalla vostra stanza?» «Qual è il numero  medio delle famiglie operaie francesi che muoion di fame a) nelle zone rurali, b) nelle città?» «In che modo i nostri compagni occidentali sono riusciti a impedire temporaneamente la guerra di aggressione che i capitalisti finanziari stanno preparando con l'aiuto dei traditori socialfascisti del proletariato?» Le domande venivano sempre laboriosamente formulate nello stile neorusso di Djugashvili [i.e. Stalin]. Dopo un po' le trovai naturalissime: c'era sempre in esse un piccolo elemento di verità esagerato e semplificato, s'intende, con la tecnica riconosciuta e accettata della propaganda; e la propaganda era del resto indispensabile per la sopravvivenza dell'Unione Sovietica, circondata da un mondo ostile.

La bugia necessaria, la calunnia necessaria; l'intimidazione necessaria delle masse per evitar loro errori di prospettiva; la liquidazione necessaria dei gruppi di opposizione e delle classi ostili; il sacrificio necessario di un'intera generazione nell'interesse di quella successiva, tutto ciò poteva apparire mostruoso, eppure era tanto facile accettarlo scivolando sui binari della fede. Tutto questo era già accaduto prima, nella storia delle chiese medievali, a Bisanzio, nel vivaio delle sette mistiche; ma il mondo mentale dell'uomo dedito agli stupefacenti è difficilmente spiegabile all'estraneo che non è mai entrato nel cerchio magico, e non ha mai giocato al croquet del Paese delle Meraviglie con se stesso. [A. Koestler, pp. 78-79].


Libertà e sanatori.

Tra il 1921 e il 1927 ebbi varie occasioni di recarmi a Mosca per partecipare, quale membro di delegazioni comuniste italiane, ad alcuni congressi e a riunioni dell'Esecutivo. Ciò che più mi colpì nei comunisti russi, anche in personalità veramente eccezionali come Lenin  e Trockij, era l'assoluta incapacità di discutere lealmente le opinioni contrarie alle proprie. L'avversario, per il semplice fatto che osava contraddire, era senz'altro un opportunista, se non addirittura un traditore e un venduto. Un avversario in buona fede sembra per i comunisti russi inconcepibile. Quale incosciente aberrazione, da parte di polemisti sedicenti materialisti e razionalisti, di affermare in termini tanto assoluti il primato della moralità sull'intelligenza. È stato giustamente già affermato che per ritrovare un'infatuazione analoga bisogna risalire agli antichi processi inquisitoriali contro gli eretici. Nel momento di lasciare Mosca, nel 1922, Alexandra Kollontaj mi disse scherzosamente: «Se ti accadrà di leggere sui giornali che Lenin mi ha fatto arrestare perché ho rubato le posate d'argento del Kremlino, vorrà dire semplicemente che su qualche piccolo problema della politica agricola o industriale non sono interamente d'accordo con lui». La Kollontaj aveva acquistato in Occidente il suo senso dell'ironia e ne faceva uso solo in conversazione con gli occidentali. Ma già allora, negli anni febbrili della creazione del nuovo regime, quando la nuova ortodossia non si era ancora impadronita di tutta la vita culturale, com'era difficile, anche per noi comunisti occidentali, intenderci con un comunista russo sulle questioni più semplici e ovvie. Com'era difficile, non dico trovarsi d'accordo ma almeno capirsi, dialogare su ciò che la libertà significasse per un uomo dell'Occidente, anche operaio. Ricordo di aver cercato un giorno, durante varie ore, di spiegarlo a una dirigente della casa editrice dello Stato, perché almeno si vergognasse dell'atmosfera d'intimidazione e di avvilimento cui erano sottoposti gli scrittori sovietici. essa non riusciva a capire quello che io volessi dire.

«La libertà», dovetti esemplificare, «è la possibilità di dubitare, la possibilità di sbagliare, la possibilità di cercare, di esperimentare, la possibilità di dire di no ad una qualsiasi autorità, letteraria, artistica, filosofica, religiosa, sociale, e anche politica.»

«Ma questa», mormorò inorridita quell'eminente funzionaria della vita culturale sovietica, «questa è la controrivoluzione.» Poi aggiunse, per prendersi una piccola rivincita: «Noi siamo felici di non avere la vostra libertà, ma in cambio abbiamo i sanatori».

Quando le feci osservare che l'espressione «in cambio» era priva di senso, «la libertà non essendo merce di cambio», e che di sanatori ne avevo già visti in altri paesi, mi rise in faccia.

«Voi oggi siete in vena di prendervi gioco di me», ella mi disse. Ed io fui talmente commosso del suo candore, che non osai più contraddirla. [I. Silone, pp. 118-119].


L'assenza dei diritti sindacali.

Prima di lasciare Mosca venne a trovarmi, nella speranza di ricevere da me conforto, un operaio comunista italiano, da vari anni profugo in Russia per sfuggire ad una condanna di molti anni d'un tribunale fascista. (Egli è, credo, ancora oggi comunista). Venne da me per lamentarsi delle condizioni umilianti della maestranza operaia nella fabbrica di Mosca in cui egli lavorava. Egli era disposto a sopportare le restrizioni materiali d'ogni specie, perché, evidentemente, il migliorarle non dipendeva dalla sola buona volontà dei capi; ma non riusciva a capire, mi disse, perché l'operaio fosse interamente alla mercé della direzione della fabbrica e non disponesse, effettivamente, d'alcun organo interamente suo di difesa, trovandosi, anche a questo riguardo, assai peggio che nei paesi capitalistici. La maggior parte dei vantati diritti della classe operaia erano puramente astratti. Il fallimento, dunque, era più vasto di quello che io sospettassi. [I. Silone, pp. 130-131].


Il partito come nuovo ordine monastico-militare.

Il Partito comunista era l'istituzione più notevole della Russia sovietica. Somigliava ad un ordine monastico per l'austerità e la dedizione che imponeva ai suoi adepti. La tradizione di obbedienza assoluta, di segretezza e di severa disciplina lo rendevano simile ad una casta militare. Era il centro propulsore, la sentinella e l'ispiratore del nuovo regime. Creava l'indirizzo politico ed era l'unica fonte del potere, pur non esercitandolo direttamente. Ciò restava compito della burocrazia governativa. Il partito dava istruzioni al governo, lo stimolava e lo sorvegliava. Questa divisione dei compiti aveva lo scopo di impedire che le alte cariche ed il potere riuscissero a corrompere i singoli comunisti. La maggior parte dei funzionari del governo erano membri del partito, ma migliaia di capi comunisti (Stalin, Zinov'ev, Bucharin, per esempio) non occupavano posti governativi. Tra di loro i comunisti si chiamavano «compagni» e ricevevano in genere uno stipendio esiguo ed uguale per tutti, che li obbligava ad una vita spartana e ad una specie di puritanesimo. I doveri di un comunista erano più numerosi dei suoi privilegi: il partito pretendeva che esso fosse un  modello di zelo antireligioso, di lealtà ideologica, di dirittura morale e di dedizione politica. Ogni mancanza veniva severamente punita. [L. Fischer, p. 229].


Il fallimento della collettivizzazione agricola.

La collettivizzazione era la prima rivoluzione nell'organizzazione agricola in Europa dacché i servi della gleba, emancipati, erano divenuti proprietari terrieri. La fattorie collettive assicuravano una produzione razionale su larga scala. Come le manifatture cittadine avevano sostituito gli artigiani nel medioevo, così il kolkoz avrebbe sostituito il piccolo coltivatore individuale. La collettivizzazione sembrava una svolta decisiva negli eventi umani. Con la drasticità drammatica che li caratterizza, i bolscevichi riuscirono a comprimere quell'intero capitolo di sviluppo sociologico in un periodo di pochissimi anni. Un osservatore straniero poteva rallegrarsi della propria rara fortuna: sotto i suoi occhi si faceva la storia.

Tuttavia la collettivizzazione fu la «Kronštadt» di molti simpatizzanti stranieri, anche di innumerevoli cittadini sovietici, i quali si resero conto prima di me che le fattorie collettive sono una forma ingegnosa e moderna di schiavitù in grande stile, che costringe il contadino a lavorare sotto gli occhi ed il pungolo dei comunisti locali e lo fa dipendere dallo Stato per le sementi, gli arnesi, gli animali da lavoro e la maggior parte delle sue rendite.

Naturalmente la nazionalizzazione dell'agricoltura incontrò la violenta e diffusa opposizione dei contadini, e tutti quanti vedemmo la reazione del governo, che trasferì schiere di kulaki (i contadini benestanti) in campi di lavoro forzato. Neppure queste deportazioni in massa piegarono l'opposizione dei villaggi. Anche i contadini più poveri si rifiutarono di portare le loro bestie alle fattorie collettive: le vendevano o le mangiavano, prima di cedere alle pressioni e di accettare di far parte delle nuove organizzazioni. Ne derivò una scarsità di bestiame e di cavalli che tormentò la Russia per anni. Le autorità impiegarono ogni sorta di costrizioni per spingere i contadini nelle fattorie collettive. Sovente in un villaggio comparivano reparti dell'esercito rosso che passavano di casa in casa ordinando agli abitanti di unirsi in un kolkoz. I contadini venivan minacciati di esilio in Siberia, o nel Turkestan, come kulaki, se si fossero ostinati nella coltivazione individuale.

Con simili metodi la grande maggioranza dei contadini russi fu organizzata in fattorie collettive. Ma una volta entrati, molti boicottarono o sabotarono gli sforzi della cooperazione per protesta contro le tasse troppo gravose, o perché speravano ancora che il governo avrebbe rinunciato alle fattorie collettive, giudicandole un fallimento. In Ucraina questo stato di cose causò la carestia del 1931-32 che uccise milioni di persone. Morirono villaggi interi. Il prezzo della fretta e del dogmatismo sovietico fu enorme.

Tra il 1929 ed il 1936 visitai dozzine di colonie collettive in Ucraina, in Crimea, nel Caucaso e nella Russia settentrionale. Mi parvero assai superiori alle minuscole fattorie dei primi anni: gli steccati ed i solchi divisori erano spariti, erano state introdotte macchine, si erano creati nidi e giardini d'infanzia. I funzionari affermavano che il rendimento per unità di misura del terreno era salito. Le collettività potevano fare esperimenti di semine e di fecondazione artificiale del bestiame, usare arature elettriche in profondità ed altre innovazioni scientifiche che superavano le più ardite fantasie di un coltivatore privato.

I pro e i contro erano pari? Le realizzazioni ripagavano le spese?

Il mio atteggiamento di fronte a tutto questo cominciò a tormentarmi. Nel glorificare l'acciaio e i kilowatt, non stavo dimenticando l'uomo? Tutte le scarpe, le scuole, i libri, i trattori, la luce elettrica, le ferrovie sotterranee che si potevano immaginare non avrebbero formato il mondo che io sognavo se il sistema che li produceva era immorale e disumano. [L. Fischer, pp. 235-237].


Contrordine, compagni! La Russia diventa nazionalista.

La rivoluzione nazista cominciò inneggiando al passato della Germania; la rivoluzione bolscevica finì quando inneggiò al passato della Russia.

La Russia aveva un grande passato, i cui eroi erano coloro che si erano ribellati agli zar. Ma le nuove direttive non celebrarono i ribelli: glorificarono invece gli zar. Ivan il Terribile, Pietro il Grande, la Grande Caterina, i principi imperiali, i generali zaristi antirivoluzionari, come Suvorov, e i monaci medioevali furono ripuliti dalle loro ragnatele, spolverati, riverniciati come santi nazionali, ed esposti al culto di un popolo stupito, al quale sino a poco prima si era insegnato a odiarli. Questi giochi d'acrobazia non fecero che acuire la crisi di sfiducia iniziatasi quando fu detto alla nazione che Trockij e altri padri della rivoluzione erano fascisti. Se Trockij era fascista e Ivan il Terribile era un eroe sovietico, ogni preciso criterio di giudizio spariva; nessuno sapeva più a che cosa credere. Chi al mattino era un angelo, poteva diventare un diavolo la sera. La confusione mentale che ne derivò condusse all'ipocrisia e all'accettazione supina delle imprevedibili rivelazioni che venivano dall'alto del Cremlino. Qui, almeno, v'era un minimo di sicurezza.

Il nuovo nazionalismo fu un nazionalismo russo. Studiosi messisi al passo riscrissero la storia per dimostrare che la Russia degli zar non era stata una «prigione di nazioni», come volevano affermare i comunisti negli anni passati. Lo studio del russo fu reso obbligatorio per tutte le minoranze nazionali. Gli ornamenti esteriori del tempo degli zar, rinnegati dai bolscevichi come relitti di un tetro passato, furono rimessi in onore; ricomparvero i titoli e le spalline per gli ufficiali dell'esercito. Fu il principio del nuovo dogma «Russia über Alles», del nazionalismo stridente ed assoluto che, pochi anni dopo, portò alla liquidazione dell'Internazionale (sostituita con un inno dedicato alla Russia), all'impiego della Chiesa come uno strumento del governo sovietico in patria e all'estero, alla comparsa di marescialli coperti di medaglie a somiglianza di Göring, alla nascita dell'imperialismo sovietico (figlio del nazionalismo), ed alla propaganda per il panslavismo, una dottrina tanto nociva quanto lo era il pangermanesimo. [L. Fischer, p. 242].


Gli intellettuali comunisti d'Occidente e il loro tipico approccio giustificazionista riguardo i processi sommari e le violenze perpetrate dai bolscevichi.


[...] chiesi a Chalmers che cosa pensasse dell'ultima serie di processi in Russia, in cui erano stati implicati Bucharin, Radek e altri. Egli esitò un momento, fissò un punto lontano, strinse gli occhi e poi disse: «Ce ne sono tanti di questi processi che da un pezzo ho smesso di pensarci su». Aveva deciso. Accettava i metodi del presente perché la sua speranza era fissa al futuro; e non ci pensava più.

Egli univa la fede nell'inesorabile evoluzione marxista della storia e una mistica fiducia nella classe operaia. Credeva che i lavoratori rappresentassero il futuro e che, dando loro la possibilità, avrebbero fatto sorgere una civiltà migliore. Se gli veniva qualche dubbio in quanto ai metodi comunisti, finiva per dirsi che in un mondo di lavoratori la società proletaria senza classi sarebbe cresciuta dal terreno dissodato grazie ai metodi della dittatura del proletariato.

Evidentemente c'erano elementi di misticismo nella sua fede. Direi anzi che sia questa una delle attrattive che il comunismo esercita sugli intellettuali. Credere in azioni politiche e forze economiche dispensatrici di nuove energie nel mondo, è alimentare anche le proprie energie personali. Spariscono le inibizioni della pietà verso le vittime della rivoluzione: si finisce per considerare la pietà come una proiezione del proprio desiderio reazionario di sfuggire alle conseguenze della rivoluzione. È possibile conservare la fede nelle mete ultime dell'umanità e insieme ignorare le migliaia di prigionieri dei campi di concentramento, le decine di migliaia di lavoratori forzati. Esistono costoro? Che esistano o no, affermare che esistono è propaganda borghese: perciò bisogna negare che vi siano in Russia campi di lavoro forzato. Le vite di quegli uomini sono diventate astrazioni, in un ragionamento per cui il presente è lotta, e l'avvenire è il comunismo, cioè un mondo dove ciascuno, poi, sarà libero: anche se si ammette, in noi stessi, l'esistenza dei campi di concentramento, si può considerarli come uno degli inevitabili sacrifici che la buona causa esige. È debolezza «umanitaria» pensare troppo alle vittime: l'importante è tenere gli occhi fissi alla meta, e allora si è liberati da quell'orrore e da quell'angoscia - inutili in tutti i casi - che paralizzano le energie dei cervelli liberali. (Non sapevo ancora che il segreto dell'energia non sta nel tenere gli occhi chiusi).

Inoltre, se il comunismo miete delle vittime, il capitalismo ne miete molte di più. Che cosa sono i milioni di disoccupati in tempo di pace, i milioni di uccisi in tempo di guerra, se non le vittime delle rivalità capitalistiche? Il capitalismo è un sistema che esige delle vittime, e il loro numero cresce senza posa. Il comunismo è un sistema in cui, teoricamente «quando tutti siano comunisti, in una società senza classi» non vi saranno vittime. Le sue vittime di oggi, non sono vittime del comunismo, ma della rivoluzione: quando la rivoluzione avrà trionfato, e la dittatura del proletariato «andrà estinguendosi», il numero delle vittime diminuirà. Il comunismo infatti non ha bisogno di sfruttare determinate classi; ha bisogno invece della collaborazione di tutti gli uomini per costruire un mondo migliore. Nei primi anni del 1930 anch'io ragionavo con me stesso in questo modo. I miei argomenti erano rafforzati da un senso di colpa, e dal sospetto che quella parte di me che considerava le vittime della rivoluzione difendesse segretamente i mali del capitalismo di cui io stesso beneficiavo.

I semi che Chalmers aveva deposto nella mia mente erano la condanna della Società delle Nazioni e le critiche che sottintendeva dicendo che ero un seguace di Gandhi.

[...]

Questa coscienza comunista doppiamente ancorata spiega anche l'atteggiamento contrito che hanno talvolta i non comunisti davanti a comunisti ortodossi dalla coscienza irrigidita - se non pietrificata - nel materialismo storico. C'è qualcosa di irresistibile in una coscienza solidamente ancorata: c'è una specie di coercizione nella rampogna del comunista convinto al liberale, la cui coscienza oscilla da caso a caso, da dubbio a dubbio, ora difendendo la libertà di uno scrittore non iscritto al sindacato - magari qualche surrealista senza coscienza sociale - ora intervenendo a favore d'un prete cattolico, o di un professore liberale in galera. Da qual forza è animata una coscienza che non ci rimprovera soltanto vizi e debolezze, ma anche virtù, come la pietà per gli oppressi, se non sono quelli giusti, o l'affetto per un amico, se non è un buon membro del partito! Una coscienza che ci dimostra come prendendo oggi una certa posizione politica possiamo arrivare domani a una schiacciante, granitica superiorità sul nostro intero passato, senza alcun senso di umiliazione, di stupidità o di colpa, ma semplicemente trasformando il complesso della nostra personalità in materia prima ad uso della macchina del partito. Com'è facile affermare che i liberali con i loro dubbi, anche se dettati da buone intenzioni, ignorano il fine ultimo, cioè il benessere sociale di tutti; argomentare che essi sono sentinelle avanzate di difesa della borghesia e che l'uomo di buona volontà può sostenere proprio quelle forze a cui vanno imputati i peggiori mali del nostro tempo!

[...]

Con gli intellettuali comunisti mi trovai sempre davanti a un dato di fatto; diventando comunisti essi avevano fatto una vera e propria operazione mentale che trasformava la realtà nel più crudo bianco e nero, senza sfumature. Era come se intellettualmente essi vivessero dentro a una specie di complessa equazione di cui conoscevano a priori il risultato. I termini dell'equazione a cui, nella vita d'ogni giorno, si trovavano di fronte non potevano alterare il più vasto calcolo astratto che avevano in testa. La rivoluzione era il principio e la fine, la somma di tutte le somme. Un bel giorno tutti i termini dell'equazione avrebbero dato quell'auspicato risultato che era la dittatura del proletariato e la società comunista. Questo modo di pensare cancellava tutte le obiezioni dell'esperienza.

Così gli intellettuali comunisti s'interessavano enormemente alla teoria e pochissimo alla pratica che poteva contraddirla. Per esempio non ne incontrai mai uno che dimostrasse la minima curiosità per qualche aspetto della Russia che non fosse quello presentato dalla propaganda stalinista. Non mi meravigliai quindi che nel processo Krawcenko a Parigi comunisti e simpatizzanti si fossero offerti di testimoniare contro il libro Ho scelto la libertà sebbene non potessero vantare la minima conoscenza della Russia. Dal loro punto di vista tutto quello che dovevano sapere era che Krawcenko era un oppositore del regime sovietico. Ciò bastava a dimostrare che doveva aver torto.

La stessa mancanza di scrupolosità, in tutto quel che non è teoria, si applica alla condotta. Il fine giustifica i mezzi. Così il corrispondente del giornale comunista si compiaceva pedantescamente a spiegarmi che mentire era necessario. Così il commissario-scrittore mi diceva con orgoglio di aver provveduto a che un soldato che per qualche ragione gli pareva malfido fosse mandato in un settore del fronte dove aveva la massima probabilità di essere ucciso. Così Harry Pollit dopo aver scritto nel 1939 che le democrazie avevano fatto la guerra per distruggere il fascismo, ritirò prontamente questa dichiarazione quando essa non convenne più alla Russia, e affermò che si era trattato di una zuffa tra gli imperialisti e i capitalisti delle due parti. Così, quando nel 1946 m'imbattei in un dirigente del Partito comunista inglese, egli mi disse in tono di rimprovero: «Perché vi agitate tanto per la vita di poche migliaia di polacchi, quando c'è di mezzo l'intera Unione Sovietica?» L'immagine del totale astratto che cancella tutte le considerazioni minori, è sempre calzante. Se la linea del partito cambia e si decide di chiamare fascismo quello che ieri si chiamava democrazia, non v'è incoerenza, perché la linea del partito è soltanto un atteggiamento preso dal partito verso i non comunisti, i quali sono tutti indistintamente trattati come pure astrazioni.

L'impulso fondamentale dei comunisti è rivolto quindi ad applicare la teoria alla realtà. Il comunista vive felice in uno stato di grazia storico-materialista che, invece di fargli vedere gli alberi e non il bosco, gli fa vedere il bosco e non gli alberi. [S. Spender, passim pp. 263-280]


Parola d'ordine: ottimismo in letteratura!

Qualche volta concetti molto crudi sono espressi con una certa sottigliezza. Per esempio nel 1947 in Cecoslovacchia il professore di russo di una grande università, un comunista russo, intelligente e molto simpatico, difese l'attacco mosso dall'Unione degli Scrittori Sovietici a Pašternak, Zoščenko e altri con l'argomento che la Russia non sapeva che farsi di buoni scrittori. «So benissimo che sono i nostri scrittori più geniali, egli disse, eppure noi non possiamo permetterci il lusso di avere dei buoni scrittori. Essi scrivono dei poemi che deprimono la gente, perché esprimono un senso suicida dell'inutilità della vita. Ma noi abbiamo bisogno che la gente lavori come non ha mai lavorato prima, quindi non possiamo permettere che gli scrittori ci parlino dell'infelicità umana.» [S. Spender, pp. 290-91]


AA.VV., Il dio che è fallito. Testimonianze sul comunismo, Baldini&Castoldi, 1992, [sottolineature mie].

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