I motivi alle origini delle religioni della redenzione individuale

[Il lungo brano che segue è una disamina critica della teoria di Nietzsche sul ressentiment, che sarebbe all'origine del cristianesimo e dell'inversione dei valori etici delle élites fino ad allora prevalenti]

Trattando in questo modo la sofferenza come segno della condizione di chi è inviso a Dio e macchiato di qualche colpa segreta, la religione veniva incontro, sul piano psicologico, ad un bisogno di ordine molto diffuso. L’uomo felice raramente si accontenta del semplice fatto di possedere la propria felicità. Egli ha anche bisogno di avere diritto a tale felicità. Vuole essere convinto di «meritarla», e soprattutto di meritarla in confronto agli altri. E vuole quindi essere anche autorizzato a credere che i meno fortunati, che non possiedono una simile fortuna, ricevono parimenti solo ciò che a loro spetta. La felicità vuole essere «legittima». Quando, con l’espressione generale di «felicità», si abbracciano tutti i beni dell’onore, del potere, del possesso e del piacere, questo costituisce la formula più generale di quel servizio di legittimazione che la religione deve rendere agli interessi esterni ed interni di tutti i dominatori, i possessori, i vincitori, i sani: in breve, di tutti i felici: la teodicea della felicità. Questa ha le sue radici nei più forti («farisaici») bisogni degli uomini ed è quindi facilmente comprensibile, anche se non si tengono abbastanza in considerazione i suoi effetti.

Sono invece tortuose le vie che hanno portato al capovolgimento di questa posizione, e cioè alla trasfigurazione religiosa della sofferenza. Un primo effetto lo ebbe la constatazione che il carisma di una di quelle condizioni estatiche, visionarie, isteriche, in breve: fuori dal comune, che vengono considerate «condizioni di santità», e la cui produzione forma quindi l’oggetto dell’ascesi magica, viene suscitato e comunque favorito da numerose forme di mortificazione della carne e di astensione sia dal normale nutrimento e dal sonno che dal rapporto sessuale. Il prestigio di queste mortificazioni era una conseguenza dell’idea che certe forme di sofferenza e certi stati anormali provocati dalla mortificazione fossero dei mezzi per acquisire poteri sovrumani e magici. Le antiche prescrizioni sui tabù e le astensioni in favore della purezza rituale, conseguenza della credenza nei dèmoni, agivano nella stessa direzione. A ciò si aggiunse però in forma nuova e indipendente, lo sviluppo dei culti della «redenzione», che assunsero una posizione essenzialmente nuova rispetto alla sofferenza individuale. Il culto comunitario originario, soprattutto quello delle associazioni politiche, non considerava gli interessi individuali. Il dio della tribù, il dio locale, il dio della città, il dio dello stato si preoccupava soltanto degli interessi della collettività: la pioggia e il sole, il bottino della caccia, la vittoria sui nemici. A lui si rivolgeva quindi la collettività come tale nel culto comunitario. Per prevenire o rimuovere i mali  — soprattutto la malattia — che concernevano il singolo individuo, non ci si rivolgeva al culto della comunità, ma, come individuo, allo stregone, il più antico «curatore di anime» individuale. Il prestigio dei singoli maghi o di quegli spiriti, o dèi, in nome dei quali compivano i loro miracoli, creava loro un’affluenza che prescindeva dall’appartenenza locale o tribale e ciò portava, in circostanze favorevoli, alla formazione di una «comunità» indipendente dai gruppi etnici. Molti «misteri» — non tutti — prendevano questa via. La loro promessa era di salvare i singoli, dalla malattia, dalla povertà, e da ogni sorta di travagli e di pericoli. Il mago si trasformò così in mistagogo; si svilupparono delle dinastie ereditarie di tali «mistagoghi», oppure un’organizzazione di personale addestrato con un capo scelto secondo regole determinate, in cui tale capo era considerato o l’incarnazione stessa di qualche essere sovrumano, o semplicemente un araldo e un esecutore del suo dio, vale a dire un profeta. Nello stesso tempo era nata così un’organizzazione comunitaria religiosa per la «sofferenza» individuale come tale e per la «redenzione» dalla stessa. Il proclama e la promessa si rivolgevano ora naturalmente alle masse di coloro che avevano bisogno di tale redenzione. Queste ed i loro interessi diventarono il centro dell’attività professionale dei «curatori di anime», attività che nacque solo allora nel vero senso della parola. L’accertamento della causa della sofferenza, la confessione dei «peccati» cioè, innanzitutto, della contravvenzione a precetti rituali, il consiglio circa la condotta atta a rimuovere il male: queste diventavano ora le tipiche attività dei maghi e dei sacerdoti. Con ciò i loro interessi materiali e ideali di fatto poterono entrare sempre più al servizio di cause specificamente plebee. Un ulteriore progresso su questa strada si ebbe con lo sviluppo di una religiosità del «Salvatore», sotto la spinta di travagli tipici e sempre ricorrenti. Questa postulava un mito del Redentore, e quindi una visione del mondo razionale (perlomeno relativamente); la sofferenza, ancora una volta, costituì il suo oggetto più importante. Il suo punto di partenza fu offerto molto spesso dalla primitiva mitologia della natura. Gli spiriti che comandavano il ciclo della vegetazione e l’andamento degli astri importanti per le stagioni diventarono i portatori preferiti del mito del dio che soffre, muore e resuscita, e che ora garantiva anche agli uomini angustiati il ritorno della felicità in questo mondo o la sicurezza di quello dell’aldilà. Oppure una figura della leggenda degli eroi divenuta popolare — come Krishna in India — e dotata di miti dell’infanzia, dell’amore e delle battaglie, diventava l’oggetto di un fervido culto del Salvatore. Presso un popolo politicamente oppresso, come quello di Israele, il nome del Salvatore (Moshuah) era innanzitutto legato a quello degli eroi leggendari (Gedeone, Iefte) che lo avevano liberato da travagli politici e da qui determinò le promesse «messianiche». Solo presso questo popolo, e con tali conseguenze, la sofferenza collettiva di un popolo, e non quella dei singoli, diventò — in circostanze molto particolari — l’oggetto di una speranza religiosa di liberazione. Di regola il Salvatore aveva carattere nello stesso tempo individuale e universale: era pronto a garantire la salvezza ai singoli, e ad ogni singolo che si rivolgeva a Lui. La figura del Salvatore poteva assumere vari aspetti. Nella tarda forma della religione zoroastriana, con le sue numerose astrazioni, una figura che era frutto di una costruzione pura assunse nell’economia della salvezza il ruolo di mediatore e di Salvatore. O viceversa un personaggio storico legittimato da prodigi e apparizioni visionarie si ergeva a Salvatore. Momenti puramente storici erano determinanti per la realizzazione delle molte possibilità diverse.

Quasi sempre però dalle speranze di redenzione nasceva una qualche teodicea della sofferenza.

Le promesse delle religioni della redenzione, in realtà, restavano anzitutto legate a promesse non etiche ma rituali, all’incirca come i vantaggi terreni e ultraterreni dei misteri eleusini erano legati alla purezza rituale e all’ascolto della messa eleusina. Ma il ruolo crescente che, con la crescente importanza del diritto, svolgevano quegli speciali dèi che sovrintendevano al procedimento giudiziario, conferì loro il compito di proteggere l’ordinamento tradizionale: cioè la punizione del reprobo e la ricompensa del giusto. E laddove una profezia influenzava in modo determinante lo sviluppo religioso, sempre naturalmente appariva il «peccato» — non più solo come contravvenzione al rituale magico, ma soprattutto sotto forma d’incredulità verso il profeta ed i suoi comandamenti — nel ruolo della causa di ogni sorta di disgrazia. Ora il profeta stesso, invero, non era affatto di regola un figlio o un rappresentante delle classi oppresse. Vedremo come il caso contrario costituisse press’a poco la regola. E anche il contenuto della sua dottrina non derivava affatto in prevalenza dalle concezioni ideali di tali classi. Ma di regola, per l’appunto, non erano i fortunati, i ricchi, i dominatori che avevano bisogno di un redentore e di un profeta, bensì gli oppressi, o perlomeno quelli minacciati dalla disgrazia. Nella maggior parte dei casi, quindi, una religiosità del Salvatore proclamata dai profeti, trovava di preferenza un durevole insediamento negli strati sociali meno privilegiati, presso i quali o sostituiva completamente la magia o ne forniva il complemento razionale. E laddove le promesse del profeta o del Salvatore stesso non incontravano abbastanza i bisogni dei diseredati, questi sviluppavano con estrema rapidità una forma secondaria di religiosità della salvezza delle masse, come sottospecie delle dottrine ufficiali. Ma proprio per questo la visione razionale del mondo presente in forma embrionale nel mito del Salvatore si vide regolarmente assegnato il compito di elaborare una teodicea razionale dell’infelicità. Nello stesso tempo, però, essa non di rado attribuiva alla sofferenza come tale una connotazione positiva che le era originariamente del tutto estranea.

La sofferenza provocata volontariamente, con la mortificazione della carne, aveva già cambiato il suo significato con lo sviluppo delle divinità etiche, che puniscono e ricompensano. Come in origine la costrizione magica esercitata sugli spiriti dalle formule di preghiera veniva accresciuta dall’automortificazione — come fonte di stati carismatici — così tale fenomeno rimase presente nelle mortificazioni propiziatorie e nelle prescrizioni rituali di astinenza anche dopo che la formula magica per la soggezione degli spiriti si era mutata in una preghiera di esaudimento ad un dio. Inoltre le penitenze espiatorie apparivano ora come un mezzo per placare con il pentimento la collera degli dèi e per allontanare, attraverso l’autopunizione, il castigo meritato. Anche quelle numerose astinenze collegate al culto dei morti che in origine (ciò è particolarmente chiaro in Cina) dovevano allontanare l’invidia e la collera del defunto, adesso si trasferirono facilmente ai rapporti con gli dèi in questione e fecero apparire l’automortificazione e in definitiva il semplice fatto stesso di privazioni non desiderate come cose più gradite a Dio del godimento senza scrupoli dei beni terreni che rendevano chi ne godeva inaccessibile all’influenza del profeta e del sacerdote.

Tuttavia la forza di questi moventi individuali conobbe eventualmente un notevole incremento quando, con il crescente razionalismo della visione del mondo, crebbe il bisogno di un «senso» etico nella ripartizione dei beni e della felicità tra gli uomini. Sicché la teodicea, con la crescente razionalizzazione della visione etico-religiosa e con la scomparsa delle condizioni magiche primitive, incontrò sempre maggiori difficoltà. Troppo spesso la sofferenza era «immeritata» sul piano individuale. E troppo spesso quelli ai quali le cose riuscivano meglio non erano i migliori, ma i «cattivi», giudicati non in base ad una «morale di schiavi» ma anche secondo i criteri propri allo strato dei signori. I peccati individuali commessi dai singoli in una vita anteriore (trasmigrazione delle anime), o la colpa degli antenati che si sconta fino alla terza e quarta generazione, o — principalmente — la corruzione di tutto ciò che è mortale come tale venivano dati come spiegazioni della sofferenza e dell’ingiustizia; mentre, come promesse di compensazione, c’erano le speranze di una migliore vita futura, sia nel mondo per i singoli (metempsicosi), o per i discendenti (regno messianico), sia nell’aldilà (paradiso). La concezione metafisica di Dio e del mondo che suscitò il bisogno inestirpabile della teodicea, fu parimenti in grado di produrre soltanto pochi sistemi di pensiero — in tutto, come vedremo, solo tre - che dessero delle risposte soddisfacenti sul piano razionale al problema del fondamento dell’incongruenza tra destino e merito. Si tratta della dottrina indiana del Karma, del dualismo di Zarathustra e del decreto di predestinazione del Deus absconditus. Queste soluzioni, le più rigorose razionalmente, sono apparse però solo in via del tutto eccezionale nella loro forma pura.

Il bisogno razionale di una teodicea della sofferenza — e della morte — ha agito in maniera straordinariamente efficace. Ha dato senz’altro la sua impronta a tratti importanti di religioni come l’induismo, lo zoroastrismo, il giudaismo, in certa misura anche il cristianesimo paolino e quello successivo. Ancora nel 1906, alla domanda posta ad un certo numero (piuttosto considerevole) di proletari circa i motivi della loro incredulità religiosa, solo una minoranza rispose con deduzioni tratte dalle moderne teorie scientifiche, mentre la maggioranza rispose con accenni all’«ingiustizia» dell’ordinamento di questo mondo, certo soprattutto perché credevano nel livellamento rivoluzionario da compiere nel mondo stesso.

La teodicea della sofferenza poteva essere tinta di ressentiment. Ma il bisogno di un compenso all’avversità del destino in questo mondo non solo non prese sempre, ma si può dire che non prese mai l’aspetto del ressentiment come tratto fondamentale. La credenza che l’ingiusto, proprio perché tale, se la passi bene in questo mondo, perché gli è riservato l’inferno, mentre ai devoti è riservata la beatitudine eterna, e che proprio per questo i peccati tuttavia commessi occasionalmente anche da questi debbano essere espiati in questo mondo, era senz’altro molto vicina al bisogno di vendetta. Ma è facile convincersi che perfino tale concezione, emersa talvolta, non era sempre condizionata dal ressentiment e soprattutto non sempre era il prodotto di strati sociali oppressi. Vedremo che sono esistiti solo pochi esempi, di cui uno solo pienamente rilevante, di una religiosità realmente determinata nei suoi tratti essenziali dal ressentiment. È vero soltanto che il ressentiment, come elemento (accanto ad altri) del razionalismo religiosamente determinato degli strati sociali meno privilegiati, poteva guadagnare importanza ovunque e spesso l'ha guadagnata. Anche questo, però, secondo la natura delle promesse di ogni singola religione, in misura molto diversa e spesso limitatissima. Sarebbe in ogni caso del tutto inesatto voler dedurre l’«ascesi» in generale da queste fonti. La diffidenza verso la ricchezza ed il potere, presente di regola in tutte le religioni della redenzione vere e proprie, aveva il suo fondamento naturale innanzitutto nel concetto sperimentato da salvatori, profeti e sacerdoti, secondo cui gli strati privilegiati e «sazi» di questo mondo provavano generalmente soltanto in misura limitata il bisogno di una redenzione - non importa di che tipo - e quindi erano meno «pii» nel senso di quelle religioni. E lo sviluppo di una razionale etica religiosa proprio nell’ambito degli strati sociali inferiori aveva del pari radici positive soprattutto nella loro disposizione interiore. Quegli strati il cui potere e la cui considerazione sociale sono fondati su solide basi, sogliono costruire la loro leggenda di ceto ispirandosi a qualche particolare qualità ad essi intrinseca, il più delle volte una qualità del sangue: la loro essenza (effettiva o presunta) è ciò che alimenta in loro il sentimento della propria dignità. Gli strati oppressi o considerati socialmente inferiori (o semplicemente sprovvisti di una valutazione sociale positiva) trovano invece più facile nutrire il sentimento della propria dignità con la credenza in una speciale «missione» loro affidata: il loro dovere o la loro attività (funzionale) garantisce o costituisce il loro proprio valore, che rimanda così ad un mondo al di là di loro stessi, ad un «compito» stabilito da Dio. Già questa circostanza come tale costituiva una delle fonti della potenza idealistica sviluppata dalle profezie etiche innanzitutto presso gli individui socialmente meno privilegiati, senza che per questo fosse necessaria la leva del ressentiment. L’interesse razionale per una compensazione materiale ed ideale di per sé bastava perfettamente. Che oltre a ciò la propaganda di profeti e dei sacerdoti si servisse anche, intenzionalmente o meno, del ressentiment delle masse, non si può mettere in dubbio, ma ciò non assume per questo valore universale. Innanzitutto questa forza sostanzialmente negativa non è stata in nessun luogo, per quanto si sappia, la fonte di quelle concezioni di essenza metafisica che hanno conferito a ciascuna delle religioni di redenzione il loro carattere particolare. E, soprattutto, il tipo della promessa religiosa, in termini generali, non era affatto necessariamente né solo prevalentemente l’esclusivo portavoce di un interesse di classe, che fosse di carattere esterno o interno. Di per sé, come vedremo, le masse rimasero ovunque prese dalla primitività grossolana della magia, dove una profezia non le abbia trascinate, con determinate promesse, in un movimento religioso a carattere etico. Del resto, il carattere particolare dei grandi sistemi etico-religiosi è stato determinato da condizioni sociali di gran lunga più individuali che non dalla mera opposizione tra strati dominanti e dominati.


Max Weber, Sociologia delle religioni. 1, Utet, 2008, pp. 341-349. [Ho omesso le note. Sottolineature mie]

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