La concezione calvinistica dell'ascesi attraverso l'esercizio della professione secondo Weber

Il sistema ascetico mondano del calvinismo e la sua origine nel problema della certezza dell'elezione.


Una domanda doveva sorgere per ogni credente e spingere in un secondo piano tutti gli altri interessi: sono io dunque fra gli eletti? e come posso acquistar la certezza di questa elezione? Per Calvino stesso questo problema non esisteva. Egli si sentiva come uno strumento ed era sicuro del suo stato di grazia. Perciò alla domanda come possa il singolo acquistar la certezza della propria salute egli dà, in fondo, una sola risposta: che noi dobbiamo contentarci della conoscenza della decisione di Dio e della costante fiducia in Cristo che è un effetto della vera fede. Egli rigetta per principio, come un tentativo temerario di penetrare negli arcani di Dio, l’ipotesi che si possa riconoscere negli altri, dalla loro condotta, se siano eletti o reprobi.

Gli eletti in questa vita non si distinguono esteriormente in nulla dai reprobi ed anche tutte le esperienze soggettive degli eletti sono possibili, come ludibria spiritus sancti, anche nei reprobi, colla sola eccezione di quella religiosa fiducia finaliter costante. Così gli Eletti sono e rimangono l’invisibile Chiesa di Dio. Naturalmente diversa fu la posizione degli epigoni, e già quella di Beza1, e soprattutto del largo stuolo degli uomini comuni. Per essi la certitudo salutis nel senso della riconoscibilità dello stato di grazia, dovette salire ad una importanza assolutamente prevalente e dappertutto dove si affermò la dottrina della predestinazione, comparve il problema se vi fossero segni certi, per cui si potesse riconoscere l’appartenenza agli electi. [...]

Per lo meno era impossibile, nella misura in cui si affacciava per l’individuo il problema del proprio stato di grazia, di limitarsi alla testimonianza personale della fede costante, prodotta dalla grazia nell’uomo, a cui rinviava Calvino, e che, in linea di principio almeno, la dottrina ortodossa non aveva mai formalmente rinnegato. Soprattutto non lo poteva la prassi della cura delle anime, che a passo a passo doveva contendere con le preoccupazioni suscitate dalla dottrina. Essa si accomodò con queste difficoltà in diverse maniere. Fintantoché il dogma dell’elezione mediante la grazia non venne interpretato diversamente, attenuato, e, nella sostanza, abbandonato, si presentano come caratteristici, due tipi di consigli per la salvezza delle anime, tra loro connessi. Da una parte viene addirittura fatto un dovere di ritenersi eletti e di respingere ogni dubbio come un assalto del demonio, poiché la scarsa sicurezza di se stesso è conseguenza di fede insufficiente, cioè di insufficiente efficacia della grazia. L’ammonimento dell’Apostolo di consolidare la propria vocatio vien qui dunque interpretato come il dovere di conquistare nella lotta quotidiana la certezza soggettiva della propria elezione e giustificazione. Invece dei peccatori umili, cui Lutero promette la grazia, se si affidino a Dio con fede e contrizione, vengono educati quei «Santi» consci di se stessi, che noi ritroviamo negli adamantini commercianti puritani di quell’epoca eroica del capitalismo ed in taluni esemplari anche dei nostri tempi. E d’altra parte, come mezzo migliore per raggiungere quella sicurezza di sé, fu raccomandato un indefesso lavoro professionale. Esso ed esso solo dissipa il dubbio religioso e dà la sicurezza dello stato di grazia. [...]

La religiosità specificamente riformata, invece, ripudiò nettamente, fin da principio, tanto la quietistica fuga dal mondo di Pascal quanto questo stato d’animo luterano rivolto ad una religiosità puramente interiore. Per l’assoluta trascendenza di Dio di fronte a tutte le creature, era esclusa la reale penetrazione del Divino nell'anima umana: finitum non est capax infiniti. La comunione di Dio con i favoriti dalla sua grazia poteva avvenire e divenir cosciente solo in questo modo; che Dio agiva (operatur) in essi e che essi ne erano consapevoli; cioè che la loro azione scaturiva dalla fede causata dalla grazia divina, e che a sua volta questa fede si legittimava come causata da Dio nella qualità di quell’azione. Appaiono qui quelle profonde differenze - valide in generale per la classificazione di ogni religiosità pratica - delle condizioni decisive per la salvezza: il virtuoso della religione può acquistar sicurezza del suo stato di grazia o in quanto si sente un recipiente o in quanto si sente uno strumento della potenza divina. Nel primo caso la sua vita religiosa inclina alla mistica del sentimento, nel secondo all’azione ascetica. Al primo tipo si avvicina maggiormente Lutero, al secondo appartiene il Calvinismo. [...]

Il Dio del Calvinismo non esigeva, dai suoi, singole «opere buone» ma una santità di opere elevata a sistema. Non v’era traccia del cattolico e perfettamente umano oscillare tra colpa, rimorso, espiazione, liberazione e nuova colpa, o di un «saldo» di tutta la vita da scontarsi con pene temporali e da liquidarsi col mezzo della grazia dispensata dalla Chiesa. La prassi etica dell’uomo medio fu privata così del suo carattere non pianificato e asistematico e fu trasformata in una condotta di vita metodica e conseguente. Non è un caso che il nome di «metodisti» è rimasto ai rappresentanti dell’ultimo grande risveglio delle idee puritane nel secolo XVIII, mentre l’indicazione di «Precisisti», equivalente nel significato, era stata applicata ai loro precursori spirituali del secolo XVII. Poiché solo in una trasformazione fondamentale del senso della vita, in ogni singola ora ed in ogni singola azione2, si poteva provare l’efficienza della grazia, considerata come un’elevazione dell’uomo dallo status naturae allo status gratiae. La vita del «santo» era esclusivamente indirizzata ad un fine trascendente: «la beatitudine ultraterrena»; ma appunto per questo nel suo svolgimento terreno era in tutto e per tutto razionalizzata e dominata dall’esclusivo punto di vista di accrescere sulla terra la gloria di Dio; e mai si è preso così terribilmente sul serio questo punto di vista: omnia in majorem Dei gloriam. E solo una vita guidata da una costante riflessione poteva valere come superamento dello status naturalis. Il cogito ergo sum di Cartesio fu assunto con questo significato morale dai suoi contemporanei puritani. Questa razionalizzazione conferì alla religiosità riformata il suo specifico carattere ascetico e diede motivo tanto alla sua intima affinità quanto al suo particolare contrasto col Cattolicesimo. Poiché naturalmente qualche cosa di simile non era estraneo al Cattolicesimo.

L’ascesi cristiana conteneva senza dubbio sia nell’apparenza esterna quanto nel suo significato elementi molto eterogenei. Ma in Occidente, nelle sue forme più alte, ebbe carattere razionale fin dal Medioevo, ed in taluni aspetti già fino dall’antichità. Ed in ciò consiste l’importanza per la storia universale della condotta di vita del monachesimo in Occidente in contrasto col monachesimo orientale, non in ogni singolo caso, ma nel tipo generale di questo. Già nella regola di S. Benedetto, più ancora nei Cluniacensi, ancor maggiormente nei Cistercensi, e nel più alto grado infine nei Gesuiti, essa si era emancipata dalla tendenza alla fuga dal mondo, priva di ogni direttiva, e dal virtuosismo del martirio di se stesso. Essa era divenuta un metodo, sviluppato sistematicamente, di condotta razionale della vita collo scopo di superare lo status naturae, di strappar l’uomo alla forza degli impulsi irrazionali ed alla schiavitù del mondo e della natura, di sottoporlo alla supremazia della volontà indirizzata secondo un fine, di sottoporre le proprie azioni al controllo costante di se stesso ed alla considerazione della loro importanza etica e così - in senso obiettivo - di fare del monaco un lavoratore a servizio del regno di Dio, e d’altra parte - in senso soggettivo - di assicurarlo della salute della sua anima. Questo dominio attivo di se stesso era tanto il fine cui tendevano gli exercitìa di S. Ignazio ed in genere le forme più alte delle razionali virtù monacali quanto il più importante ideale di vita pratico del Puritanesimo. Già nel profondo disprezzo con cui, da parte riformata, nelle relazioni degli interrogatori subiti dai martiri, viene opposto allo strepito senza ritegno dei nobili prelati e funzionari la fredda e riservata calma dei suoi confessori, appare quella stima per il controllo di se stesso, che vien rappresentata dai migliori tipi dell’odierno gentleman inglese ed angloamericano. E per dirla nella nostra lingua corrente: l’ascesi puritana, come ogni ascesi «razionale» agiva nel senso di render capace l’uomo di mantenere e di far valere di contro agli «affetti» i suoi «motivi costanti», in ispecie quelli che essa stessa gli inculcava, in modo da formarne una «personalità» nel senso formale e psicologico della parola. Scopo dell'ascesi era, in contrasto con talune idee popolari, il poter condurre una vita cosciente, chiara e limpida; il suo compito più urgente la distruzione dello spregiudicato ed impulsivo godimento della vita, il mezzo principale il portar ordine nella condotta di vita dei suoi seguaci. Tutti questi punti decisivi si trovano espressi nelle regole del monachesimo cattolico al pari che nei princìpi fondamentali per la condotta di vita dei Calvinisti. Su questa conquista metodica di tutto l’uomo si fonda nell’uno e nell’altro la loro enorme forza che vince il mondo, e in particolare nel Calvinismo di fronte al Luteranesimo la sua capacità di assicurare come ecclesia militans la durata del Protestantesimo.

D’altra parte è evidente in che consistesse il contrasto dell'ascesi calvinistica con quella medioevale; era la scomparsa dei consilia evangelica e con ciò la trasformazione di essa in un’ascesi puramente intramondana. Non che nel Cattolicesimo la vita metodica fosse rimasta esclusivamente dentro alle celle dei chiostri. Ciò non era né teoricamente e neppure praticamente. È stato invece rilevato che, nonostante la maggiore contentabilità del Cattolicesimo in fatto di morale, una vita priva di un sistema etico anche per il cattolico non raggiunge i più alti ideali, proposti dal Cattolicesimo anche per la vita intramondana. Il terzo ordine di S. Francesco fu, per es., un potente tentativo di penetrazione ascetica nella vita quotidiana, e non fu l’unico in tal senso. È vero che opere quali l’Imitazione di Cristo mostrano proprio nella loro efficacia, che il modo di vita in esse predicato veniva sentito come qualche cosa di più alto rispetto al minimum rappresentato dalla moralità ordinaria, e che quest’ultima non veniva misurata con misure prefisse, come le aveva il Puritanesimo. E la prassi di talune istituzioni ecclesiastiche, soprattutto quella dell’indulgenza - che appunto anche per ciò, al tempo della Riforma, non fu considerata come un abuso occasionale, ma come il malanno fondamentale - doveva essere permanentemente di ostacolo agli inizi di una sistematica ascesi intramondana. Il punto decisivo però era questo: che l’uomo che per eccellenza viveva metodicamente, in senso religioso, era e restava il monaco soltanto, e che perciò quanto più il singolo si dava all’ascesi, tanto più ne era spinto fuori della vita mondana, perché nel superamento appunto della moralità intramondana consisteva la vita specificamente religiosa.

Lutero aveva abolito tutto questo e non per obbedire ad una qualsiasi tendenza evoluzionistica, ma in seguito ad esperienze puramente personali; da principio ancora esitante sulle conseguenze pratiche, e poi spinto sempre più avanti dalla situazione politica; e l’abolizione era passata nel Calvinismo. Di fatto già Sebastian Franck centrava l’essenza stessa della sua religiosità quando riscontrava l’importanza della Riforma nel fatto che ora ogni Cristiano doveva essere un monaco durante tutta la sua vita. Era costruita una diga contro la fuga ascetica dalla vita quotidiana, e quelle nature serie, appassionate, profonde, che finora avevano fornito al monachesimo i suoi migliori rappresentanti, erano adesso indirizzate a seguire ideali ascetici nella vita professionale laica. Ma il Calvinismo nel corso del suo sviluppo vi aggiunse qualche cosa di positivo: il concetto della necessità della comprova della fede nella vita professionale laica. Esso dette così a più largo numero di indoli orientate religiosamente l’impulso positivo dell’ascesi; e collegando strettamente la sua etica con la dottrina della predestinazione, fece sì che all’aristocrazia ecclesiastica dei monaci, che era al di sopra e al di fuori del mondo, subentrasse l’aristocrazia ecclesiastica dei santi nel mondo predestinati da Dio fin dall’eternità, una aristocrazia che col suo character indelebilis era separata dalla rimanente umanità dannata ab aeterno, da un abisso più invalicabile e nella sua imperscrutabilità più sinistro, che non le fosse il monaco medioevale nella sua separazione esteriore dal mondo; una divisione che incideva con gran rigore tutti i rapporti e sentimenti sociali. Poiché a questi privilegiati della grazia di Dio quali eletti e perciò santi, rispetto alla colpa del prossimo, non si conveniva (come, al contrario, sarebbe convenuto nella consapevolezza della debolezza propria) un’indulgente disposizione ad aiutare, ma l’odio e il disprezzo contro di esso come contro un nemico di Dio, che porta in sé il segno della dannazione eterna. [...]

Quell’ordinamento sistematico della condotta morale, che l’ascesi del Protestantesimo calvinistico ha in comune colle forme razionali della vita monastica cattolica, si manifesta qua, in modo del tutto esteriore, nelle forme con cui il Puritano preciso controllava continuamente il suo stato di grazia. Il diario religioso, nel quale le colpe, le tentazioni ed i progressi fatti nella grazia venivano riportati continuamente od anche sotto forma di tabella, era comune tanto alla religiosità moderna cattolica, ed in particolare della Francia, opera soprattutto dei Gesuiti, quanto a quella dei circoli riformati più zelanti. [...]

Una penetrazione dello spirito cristiano in tutto l’uomo fu la conseguenza di questo metodo di condotta morale della vita, cui obbligava il Calvinismo in contrasto col Luteranesimo. Occorre sempre tener presente, per la retta comprensione dell’azione del Calvinismo, che questo metodo era l’elemento che influiva in maniera decisiva sulla vita. Ne deriva da una parte che solo questa caratteristica poteva esercitare una tale azione, ma dall’altra che anche altre confessioni, se i loro impulsi etici erano identici in questo punto decisivo, cioè il concetto della comprova, dovevano agire nella stessa direzione. [...]

La religiosità luterana lasciò perciò qui intatta la vitalità spontanea dell'azione impulsiva e dei sentimenti naturali; mancò quell’impulso al controllo costante di se stesso e con ciò al regolamento sistematico della propria, vita, quale era contenuto nella cupa dottrina del Calvinismo.


Il riprovevole adagiarsi nella ricchezza.

Ciò che è veramente riprovevole dal punto di vista morale, è l’adagiarsi nella ricchezza3, il godimento della ricchezza colla sua conseguenza dell’ozio e degli appetiti carnali, soprattutto di sviamento dallo sforzo verso una vita «santa». E la ricchezza è sospetta solo perché porta con sé il pericolo di questo riposo; poiché il «riposo eterno dei Santi» è nell’aldilà; ma sulla terra l’uomo per esser sicuro del suo stato di grazia deve «compiere le opere di Colui che lo ha mandato, fintanto che è giorno». Non l’ozio e il godimento, ma solo l’azione serve, secondo la volontà di Dio manifestamente rivelata, ad accrescimento della sua gloria. La perdita di tempo è così la prima e, per principio, la più grave di tutte le colpe. Lo spazio della vita è brevissimo ed infinitamente prezioso per affermare la propria vocazione. La perdita di tempo nella società, «la conversazione oziosa», il lusso, persino di dormire più di quel che sia necessario alla salute — dalle 6 ad 8 ore al massimo — è da un punto di vista morale, assolutamente riprovevole.

Non si dice ancora, come dirà Franklin: «Il tempo è denaro» ma questa sentenza vale, per così dire, in senso spirituale: esso è infinitamente prezioso, perché ogni ora perduta è tolta al lavoro a servizio della gloria di Dio. Senza valore, talvolta addirittura riprovevole, è anche la contemplazione inattiva, per lo meno se essa avviene a spese del lavoro professionale. Poiché essa è meno accetta a Dio dell’adempimento attivo della sua volontà nella professione. [...]

Ma il lavoro è oltre a ciò, soprattutto, lo scopo della vita prescritto da Dio. La sentenza di S. Paolo «Chi non lavora non deve mangiare» vale senza restrizioni per tutti. La scarsa voglia di lavorare è sintomo della mancanza dello stato di grazia. [...]

[...] colla più grande energia egli [Baxter] insiste sul principio fondamentale che anche la ricchezza non esonera da quella prescrizione assoluta. Anche il possidente non deve mangiare senza lavorare, perché anche se non vi è costretto per coprire il suo bisogno vi ha tuttavia il precetto di Dio, al quale egli deve obbedire come il povero. Perché la provvidenza di Dio tiene pronto per ciascuno senza eccezioni una vocazione (calling), che egli deve riconoscere e nella quale deve lavorare e questa vocazione non è, come nel Luteranesimo, una sorte alla quale ci si deve adattare e rassegnarsi, ma un comando di Dio all'individuo di operare per la sua gloria. [...]

«Fuori di una professione stabile le prestazioni di lavoro di un uomo sono soltanto un lavoro occasionale ed egli passa più tempo nel non far nulla che nel lavoro», e  [Baxter] conclude nella seguente maniera: «Ed egli (il lavoratore professionale) compirà in ordine il suo lavoro, mentre un altro è nell’eterna confusione e la sua occupazione non conosce né luogo né tempo… perciò una professione stabile (certain calling, in altri passi stated calling) è la miglior cosa per ognuno».

Il lavoro malsicuro, a cui è costretto il comune bracciante giornaliero, è uno stato transitorio spesso inevitabile, ma sempre non desiderato. Manca appunto alla vita di chi è privo di professione il carattere sistematico-metodico, che, come vedemmo, è richiesto dall’ascesi intramondana. Anche secondo l’etica dei Quaccheri la vita professionale dell’uomo deve essere un conseguente esercizio ascetico della virtù, una preservazione del suo stato di grazia, che si esprime nella curai e nel metodo, con cui egli attende alla sua professione. Non il lavoro di per se stesso, ma un razionale lavoro professionale è ciò che Dio richiede. Nel concetto puritano di professione l’accento è posto su questo carattere metodico dell’ascesi professionale, e non, come in Lutero, sull’adattarsi ad una sorte assegnata una volta per tutte da Dio. [...]

La ricchezza è pericolosa solo come tentazione ad adagiarsi nella pigrizia e a godere nel peccato, e pericoloso è lo sforzo verso di essa solo quando avviene per poter vivere più tardi senza preoccupazioni ed allegramente. Ma come esercizio del dovere professionale quello sforzo è non soltanto lecito moralmente, ma addirittura comandato.

La parabola di quel servo, che fu scacciato perché non aveva messa a frutto la libbra a lui affidata, sembrava esprimere chiaramente questo comando. Volere esser povero significava, come spesso si portava per argomento, lo stesso che volere esser malato, e sarebbe stato riprovevole come santificazione delle opere e dannoso alla gloria di Dio. Ed infine il chieder l’elemosina da parte di uno che fosse stato capace di lavorare, era cosa non solo colpevole come pigrizia, ma anche, conformemente alla parola dell’apostolo, contraria all’amor del prossimo.

Come il rafforzamento del significato ascetico della professione stabile mette, moralmente, in miglior luce il moderno ceto dei professionisti specializzati, così l’interpretazione in senso provvidenziale delle possibilità di guadagno conferisce un alone morale all’uomo d’affari moderno. L’aristocratica indifferenza del gran signore e la ostentazione da parvenu del ricco borioso sono ugualmente odiose all’ascesi. Un raggio di approvazione morale investe in pieno l’austero self-made man borghese: God blesseth his trade è una espressione costantemente usata per quegli Eletti, che avevano seguito con successo quelle disposizioni divine, e tutta la forza del Dio del Vecchio Testamento, che ricompensa appunto in questa vita i Suoi della loro pietà. [...]

E tanto più fortemente agì, tra i libri canonici, il libro di Giobbe, colla sua combinazione di una grandiosa glorificazione della maestà divina da un lato, assolutamente sovrana e sottratta alle misure umane, che era così congeniale alla concezione calvinista, e della certezza, d’altra parte, pur sempre risorgente — secondaria per Calvino quanto importante per il Puritanesimo — che Dio benedice i Suoi anche e specificamente in questo mondo — nel libro di Giobbe solo in questo mondo — e anche dal lato materiale. [...]

È pertanto assolutamente esatta, se ben compresa, la definizione di «Ebraismo inglese» data frequentemente già dai contemporanei, e ripetuta da scrittori moderni, della disposizione morale fondamentale del Puritanesimo inglese.


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1. Teodoro di Beza, 1519–1605, teologo protestante francese, erede di Calvino a Ginevra.
2. Poiché - come mettono in rilievo i predicatori puritani (v. per es. in Bunyan, The Pharisee and the Publican, nei W. of. Pur. Div., p. 126) - ogni singola colpa distrugge tutto «il merito» che in un’intera vita si possa aver accumulato mediante le «opere buone», se, per assurdo, l’uomo fosse di per sé capace di fare qualche cosa che Dio dovrebbe computargli a merito, o se potesse vivere a lungo nella perfezione. Non ha luogo, come nel Cattolicesimo, una specie di conto corrente con saldo finale - un quadro che già era comune nell’antichità - ma per tutta la vita vale la rigida alternativa: o stato di grazia o perdizione.
3. Concetto che è sviluppato ed approfondito nel cap. X del Saints everlasting rest. Chi vuol riposare a lungo nella ricchezza, che Dio ci dà come un asilo temporaneo, quegli è colpito da Dio anche in questa vita. Quasi sempre un riposo soddisfatto nella ricchezza acquistata preannuncia la rovina. Se anche avessimo tutto quel che potremmo avere nel mondo, sarebbe questo tutto quel che vorremmo? La mancanza di desideri non si può raggiungere sulla terra; perché essa non deve esistere proprio per volontà di Dio.


Max Weber, Sociologia delle religioni. 1, Utet, 2008, passim pp. 217-244 e 289-305. [Sottolineature mie; molte note sono state omesse].

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