La religione e la genesi del capitalismo

[Se si fa la tara ai giudizi moraleggianti espressi da un convinto socialista, questo studio è senz'altro un'ottima integrazione e per certi versi anche un approfondimento delle tesi espresse da Weber nel celeberrimo studio sull'etica protestante del lavoro. Ne riporto qui sotto i passaggi a mio avviso più interessanti. Un appunto sulla traduzione italiana, non proprio ineccepibile, e che nei brani riportati ho dovuto in qualche punto correggere. I titoli sono miei.]


L'incomprensione medievale dell'importanza dell'intermediario (mercante, finanziere) e la condanna della ricerca del profitto.

L'insistenza nell'affermare che il commercio non sia in sé peccaminoso [si riferisce all'opinione di Duns Scoto] suggerisce che le pratiche dei commercianti appaiano almeno di dubbia moralità. e in realtà lo sono agli occhi della maggior parte dei pensatori medievali. Summe periculosa est venditionis et emptionis negotiatio1 . La struttura organizzativa dell'economia del tempo spiega in parte questo atteggiamento. Nell'economia del comune medievale - basti pensare al regolamento delle scorte alimentari e dei prezzi - il consumo costituiva per la comunità il termine principale di riferimento, l'arbitro indiscutibile dello sforzo economico, come il profitto nel diciannovesimo secolo. il mercante puro e semplice, sebbene si rendesse utile al re, al quale faceva prestiti e per conto del quale riscuoteva le tasse, e a grandi complessi come i monasteri, a cui comprava in blocco la produzione di lana, era due volte impopolare: come straniero e come parassita. Il miglior corollario pratico della tiepidezza dell'atteggiamento tollerante dei teorici verso i commercianti è costituito dalla ragnatela di restrizioni di cui la politica medievale circondava la loro attività, dai ricorrenti sfoghi di indignazione pubblica nei loro riguardi e dalla violenza con cui i comuni repressero i mediatori che agivano fra consumatori e produttori.

Tuttavia, prescindendo dalla sfumature dovute all'ambiente, la teoria sociale medievale aveva motivi suoi propri per ritenere che il mondo degli affari, distinto da quello del lavoro, richiedesse qualche giustificazione speciale. Le motivazioni economiche erano state considerate con sospetto fin dai primi tempi dell'insegnamento della chiesa, e questo sospetto perdurerà fino a quando il calvinismo non donerà un nuovo crisma di santificazione alla vita dell'impresa economica. Nella filosofia medievale il riconoscimento delle esigenze pratiche aveva addolcito, ma non spento la tradizione ascetica, che condannava il commercio come regno dell'iniquità; e se la condanna era sospesa, l'ammonimento rimaneva insistente. Era l'essenza stessa del commercio a spingere in primo piano il desiderio di ricchezza; e di fronte a questo desiderio, che a quasi tutti i pensatori moderni appare l'unica sicura fonte di dinamica sociale, l'atteggiamento del teorico medievale era quello di chi tenesse un lupo per le orecchie. L'artigiano lavora per vivere; aspira a quanto è sufficiente a sostentarlo, e nulla più. Il mercante non vuole solo guadagnarsi da vivere, vuole avere un profitto. Le parole di Graziano esprimono questa distinzione tradizionale: "Chiunque compri una cosa non per venderla intera e immutata, ma come materiale per fabbricare qualcosa d'altro, non è un mercante. Ma l'uomo che la compra al fine di poter trarre un guadagno dal rivenderla ancora immutata, come la comprò, quell'uomo è uno di quei compratori e venditori che sono scacciati dal tempio di Dio."2. Per definizione, il commerciante è un uomo che "compra al fine di vendere più caro," mosso da un'inumana concentrazione sul proprio interesse pecuniario, che non è addolcita da spirito comunitario né da carità privata. Egli fa uno scopo di ciò che dovrebbe essere un mezzo, e quindi la sua occupazione "è giustamente condannata, poiché, considerata in se stessa, è al servizio della brama di guadagno."3

Il dilemma costituito da una forma di attività che al tempo stesso era pericolosa per l'anima e essenziale per la società si rivelava nella soluzione più comunemente proposta. Essa consisteva nel trattare i profitti come un caso particolare di salari, con la specificazione che i guadagni superiori a quella che sarebbe stata una ragionevole remunerazione del lavoro del mercante erano da condannare come turpe lucrum, sebbene non fossero illegali. La condizione alla quale si può perdonare il commerciante è che "egli cerchi il guadagno non come fine, ma come salario del suo lavoro."4 Questa dottrina era comoda teoricamente, ma di difficile applicazione, poiché evidentemente implicava l'accettazione di ciò che in seguito la tranquilla ironia di Adamo Smith descriveva come "un'affettazione non molto comune tra i mercanti." Pure i motivi che la determinavano erano tipici. Il teorico medievale condannava come peccato proprio quello sforzo di ottenere un aumento continuo e illimitato di ricchezza materiale che e società moderne approvano e considerano meritorio, e i vizi che egli denunciava con maggiore asprezza erano le virtù economiche più sottili e raffinate. "Colui che ha a sufficienza per soddisfare i suoi bisogni, e tuttavia cerca incessantemente di accumulare ricchezze, o per ottenere una posizione sociale più elevata, o per poter in seguito vivere senza lavorare, o perché i suoi figli possano diventare uomini ricchi e importanti - tutti gli uomini siffatti sono spinti da riprovevole avarizia, sensualità o orgoglio."5 Due secoli e mezzo dopo, mentre l'ambiente economico e spirituale era scosso da una rivoluzione, Lutero avrebbe detto le stesse cose, in un linguaggio ancor più crudo. L'essenza del ragionamento è che gli artigiani che fabbricano le merci o i mercanti che le trasportano hanno il diritto di richiedere pagamento, poiché entrambi lavorano nella loro professione e servono il bisogno comune. Il peccato imperdonabile è  quello dello speculatore o dell'intermediario, che strappa un guadagno personale dallo sfruttamento delle necessità pubbliche. La vera discendente delle dottrine dell'Aquinate è la teoria del valore lavoro. L'ultimo scolastico è Carlo Marx.

[...]

La differenza fondamentale fra il pensiero economico moderno e il pensiero economico medievale sta in questo: il primo fa normalmente riferimento all'utile economico, comunque interpretato, per dar ragione di ogni particolare azione, politica o sistema organizzativo, il secondo parte dal riconoscimento di un'autorità morale a cui debbono esser subordinate le considerazioni di utilità economica. L'applicazione pratica di questa concezione consiste nel tentativo di valutare tutte le transazioni secondo regole di giustizia, largamente, se non totalmente, indipendenti dalle combinazioni fortuite delle circostanze economiche. Nessuno deve chiedere più del prezzo fissato dalle autorità pubbliche, o, in mancanza di ciò, dalla stima comune. Anche così, è vero, i prezzi varieranno in funzione della scarsità; con tutto il loro rigore, i teologi non sono così privi di spirito pratico da non riconoscere l'effetto delle variazioni delle scorte. Ma non varieranno in funzione delle necessità o delle opportunità individuali. Diabolico è chi si avvantaggia di una scarsità temporanea, o addirittura la crea, chi fa i soldi con le evoluzioni del mercato, chi, come Wyclif, deve esser cattivo, altrimenti non potrebbe essere stato povero ieri ed esser ricco oggi.6 [pp. 44-50]


L'attacco della teologia all'usura.

Si può naturalmente ricevere un profitto da una società, purché se ne dividano i rischi. Si può comprare una rendita, poiché i frutti della terra son prodotti della natura, non fabbricati dall'uomo. Si può richiedere una compensazione - detta nel Medio Evo interesse - se il prestito non viene reso nel tempo pattuito. Si può domandare il pagamento corrispondente a qualsiasi perdita o mancato guadagno che sia la conseguenza del prestito. Si può comprare un vitalizio, perché il pagamento è contingente e non certo, e non costituisce speculazione [...] Quel che alla fine rimaneva illegale era ciò che nei moderni testi di economia si chiama "interesse puro" - l'interesse come pagamento fisso prestabilito per un prestito in denaro o merci senza rischio per il prestatore. "Usura est ex mutuo lucrum pacto debitum vel exactum... quidquid sorti accedit, subaudi per pactum vel exationem, usura est, quodcumque nomen sibi imponat."7 L'accento era sul pactum. L'essenza dell'usura stava nella certezza, per cui, che il beneficiario guadagnasse o perdesse, l'usuraio si prendeva la sua libbra di carne. 

[...] i teologi, liberali o conservatori che fossero, erano unanimi sul punto che ricevere un pagamento per il puro atto del prestito fosse cosa iniqua [...] Praticare l'usura è contrario alla Scrittura; è contrario ad Aristotele; è contrario alla natura, poiché è vivere senza lavorare; è vendere il tempo, che appartiene a Dio, a vantaggio di uomini malvagi; è depredare chi usa il denaro prestato, a cui dovrebbero toccare i profitti, perché li ha procurati; è in sé ingiusto, perché il frutto del prestito non può superare il valore della somma prestata; è in contrasto con i più sani principii giuridici, perché quando si fa un prestito di denaro la proprietà della somma prestata passa a ci ha ricevuto il prestito, e il creditore non ha ragione di chiedere un pagamento da una persona che sta semplicemente usando qualcosa che ora è di sua proprietà.

È ovvio in tutto ciò il peso dell'autorità. c'erano testi nell'Esodo e nel Levitico; c'era Luca (VI 35 - apparentemente un errore di traduzione); c'era un passaggio nella Politica, di cui pure qualcuno dice oggi che contenesse un errore di traduzione. Ma considerazioni pratiche contribuirono alla formazione di questa dottrina più di quanto si pensi [...]

Sì, la chiesa non poteva fare a meno della scorrettezza commerciale ad alto livello. era troppo conveniente. La distinzione fra prestare su pegno, che è cosa condannabile, e fare alta finanza, che è cosa altamente onorevole, era diffusa nell'Età della Fede come nel ventesimo secolo; e non è possibile giudicare ragionevolmente la denuncia medievale dell'usura se non si ricorda che ad essa sfuggiva quasi completamente una vasta schiera di affari finanziari. L'accusa si rivolgeva raramente alle transazioni su larga scala di re, signori feudali, vescovi ed abati. I loro sudditi, oppressi dai debiti con un usuraio straniero, potevano lamentarsi o insorgere, ma se un Edoardo III o un Conte di Champagne era nelle mani dei finanzieri, chi poteva chieder conto al debitore o al creditore? Ancor più raramente l'accusa si levava al papato; i papi usavano regolarmente le banche internazionali del tempo, con un'incredibile indifferenza verso le caratteristiche morali dei loro metodi, cosa di cui ci si lamentava spesso, davano a queste banche la loro speciale protezione e talvolta costringevano al pagamento dei debiti con la minaccia della scomunica. Di regola, nonostante qualche protesta, il mercato internazionale del denaro sfuggì alla condanna dell'usura; nel quattordicesimo secolo l'Italia era piena di banche che trattavano scambi internazionali in ogni centro commerciale da Londra a Costantinopoli, e nelle grandi fiere, come quella di Champagne, si assegnava un periodo speciale per la negoziazione dei prestiti e il pagamento dei debiti.

[...] Il fatto era che tutto l'insieme di presupposti intellettuali e di interessi pratici su cui si fondava la proibizione dell'usura si riferiva a un ordine di attività economiche del tutto diverso da quello rappresentato dai prestiti delle grandi banche ai mercanti e ai signori che erano loro clienti. Lo scopo della condanna era semplice e diretto - evitare che il ricco, prestando denaro, sfruttasse i bisogni del contadino o dell'artigiano; le sue categorie, del tutto appropriate a quel tipo di transazione, erano quelle della moralità personale. era in questi banali contratti fra piccoli uomini che più facilmente si nascondeva l'oppressione e più aspri potevano essere i risultati. era per questi che la chiesa aveva elaborato il suo schema di etica economica, era a questi che, anche se non applicato ad alto livello, doveva essere imposto, come parte della carità cristiana. [pp. 51-54, ma le pp. seguenti del capitolo - che qui non riproduco - sono ugualmente importanti ]

Come affronta la vita il puritano.

Con uno spiritualismo aristocratico, che sacrificava la fraternità alla libertà, egli trasse dalla sua idealizzazione della responsabilità personale una teoria dei diritti dell'individuo che, laicizzata e generalizzata, sarebbe diventata uno dei più potenti esplosivi che la storia abbia mai conosciuto. Ne trasse pure una scala di valori etici, in cui lo schema tradizionale delle virtù cristiane fu quasi completamente capovolto, e che, da uomo anzitutto pratico, egli usò come forza motrice nella vita politica e commerciale.

Infatti, poiché comportamento ed attività pratica, anche se non servono all'ottenimento del libero dono della salvezza, sono tuttavia prova che questo dono è stato ricevuto, quel che è respinto come mezzo è ripreso come conseguenza, e il puritano si getta nelle attività pratiche con l'energia demoniaca di chi, vinto ogni dubbio, è conscio d'essere un vaso scelto e sigillato. Una volta immerso negli affari, egli porta in essi tutte le buone qualità e tutte le limitazioni del suo credo religioso, con la loro logica inflessibile. Chiamato da Dio a lavorare nella sua vigna, ha in sé un principio di energia e di ordine, che lo rende irresistibile nelle battaglie della guerra come nelle competizioni del commercio. Convinto che il carattere è tutto e le circostanze nulla, nella povertà di coloro che cadono per strada non vede una disgrazia da commiserare e alleviare, ma una colpa morale da condannare, e nella ricchezza non scorge un elemento di sospetto - anche se pur di essa si può abusare - ma la benedizione che corona il trionfo dell'energia e dell'autocontrollo, è l'asceta pratico, che non vince le sue battaglie nel chiostro, ma sul campo di battaglia, in banca, al mercato. [pp. 192-192]


La professione come vocazione e ascesi.

"Il grande Governatore di questo mondo ha fissato per ogni uomo il posto e la provincia adatti, e per quanto un uomo sia attivo fuori della sua sfera, si troverà assai male, se non coltiva la sua vigna e non bada ai suoi affari."8

Questa reiterata insistenza sui doveri secolari, imposti dalla volontà divina, fa della coscienziosa esecuzione dei compiti del proprio  mestiere una delle virtù religiose e morali più elevate, in netto contrasto con l'antico ideale della rinuncia al mondo. [...] Non era un'idea nuova. Lutero l'aveva usata come arma contro il monachesimo. Ma per Lutero, che aveva una concezione patriarcale delle attività economiche, vocazione in genere significa quella condizione di vita in cui la persona è stata posta dal cielo, e contro la quale è empio ribellarsi. Ma sulle labbra dei sacerdoti puritani, la vocazione non è un invito alla rassegnazione, ma la tromba che chiama a raccolta gli eletti per la lunga battaglia che terminerà soltanto alla morte. [...]

Laborare est orare. Il  moralista puritano ripete la vecchia massima con un significato nuovo e più intenso. Il lavoro che egli idealizza non è solo un'esigenza imposta dalla natura, o una punizione per il peccato di Adamo. È in se stesso una specie di disciplina ascetica, più rigorosa di quella richiesta da qualsiasi ordine mendicante - una disciplina voluta da Dio, che non si soddisfa nella solitudine, ma nella precisa esecuzione dei doveri secolari. Non è un semplice mezzo economico, da abbandonare dopo aver soddisfatto i bisogni fisici. È  un fine spirituale, l'unico che garantisca la salute dell'anima, che deve permanere come dovere etico anche quando non corrisponde più a una necessità materiale. Così concepito, il lavoro sta al polo opposto delle "buone opere", com'erano intese - o fraintese - dai protestanti, e cioè una serie di transazioni individuali, che avevano lo scopo di compensare particolari peccati o di acquisire meriti. Al puritano non si richiedono singoli atti meritori, ma una vita santa - un insieme in cui ogni elemento è raggruppato intorno a un'idea centrale, il servizio di Dio, da cui sono tolte tutte le insignificanti fonti di distrurbo, e a cui sono subordinati tutti gli interessi di minore importanza.

La sua concezione di vita si esprime in queste parole: "Siate completamente presi dal diligente esercizio della vostra legittima vocazione, quando non state operando al più diretto servizio di Dio."9 [...]

Grazie a una specie di felice armonia prestabilita, simile a quella che in altra epoca si sarebbe scoperta fra i bisogni della società e l'interesse degli individui, il successo negli affari è già di per sé quasi un segno di grazia spirituale, poiché è prova che colui che l'ha conseguito ha fedelmente operato nella sua vocazione, e che "Dio ha benedetto il suo mestiere." [...]

Fra l'antica accusa contro l'egoistica avidità e la moderna approvazione dell'iniziativa economica sta il ponte costituito dalla tesi che l'iniziativa stessa rappresenta l'adempimento di un dovere imposto da Dio. [...]

Il passaggio dall'anabattista al capitano d'industria fu meno brusco di quel che a prima vista ci si sarebbe potuti aspettare. L'avevano preparato senza volerlo i moralisti puritani. Con la loro insistenza sul dovere morale di un'attività indefessa, sul lavoro come fine a se stesso, sui mali del lusso e della stravaganza, sulla previdenza e il risparmio, sulla moderazione, l'autodisciplina e il calcolo razionale, essi avevano creato un ideale di vita cristiana che canonizzava come principio etico quell'efficienza che gli economisti andavan raccomandando come cura per prevenire i disordini sociali. Erano argomenti nuovi e attraenti. Per un'infinità di generazioni la massima fondamentale dell'etica sociale cristiana era rimasta quella espressa dalle parole di S. Paolo a S. Timoteo: "Contentiamoci di aver cibo e veste. Poiché la cupidigia è la radice di tutti i mali." Ora, mentre il mondo premeva come sempre alle porte, i difensori della cittadella innalzavano una nuova bandiera. La guarnigione aveva scoperto che l'esercito invasore degli appetiti economici non era un nemico, ma un alleato. Lo scopo degli sforzi del cristiano non era più di soddisfare le necessità della vita quotidiana, ma di arricchire al di là di ogni limite. Il cardine di questa posizione non era più il consumo, a cui avevano badato i saggi antichi, ma la produzione. Riscuoteva la lode che spetta al servitore buono e fedele l'accumulazione sistematica e metodica, e non, come un tempo, la carità facile e generosa. La mentalità commerciale astuta e calcolatrice, che misura in termini di denaro tutte le relazioni umane, il desiderio di possesso che non trova riposo finché ci siano concorrenti da vincere o profitti da guadagnare, l'amore della potenza sociale e la sete di vantaggi economici - questi appetiti irreprimibili avevano suscitato da tempo immemorabile ammonimenti e accuse di santi e di saggi. Tuffate nelle acque detergenti del tardo puritanesimo, le qualità che epoche meno illuminate avevano condannato come vizi ne venivan fuori pulite come virtù economiche. E anche come virtù morali. Il mondo non esiste per esser goduto, ma per esser conquistato. Solo chi lo conquista merita il nome di cristiano. [pp. 200-206.]



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1. Enrico di Ghent, Aurea Quodlibeta, p. 42 [...]
2. Graziano, Decretum, p.1, dist. 88, cap. 11.
3. Tommaso d'Aquino, Summa Theol., 2a 2ae, q. 77, a. 4.
4. Ibid. [...]
5. Enrico di Langhenstein, Tractatus bipartitus de contractibus emptionis et venditionis, 1, 12 [...]
6. On the Seven Deadly Sins, cap. 24 (Works of Wyclif, a cura di T. Arnold, vol. 3, p. 153 [...].
7. Bernardi Papiensis Summa Decretalium (a cura di E. A. D. Laspeyres, 1860), lib. 5. tit. 15.
8. Richard Steele, The Tradesman's Calling, being a Discourse concerning the Nature, Necessity, Choice, etc., of a Calling in general, 1684, pp. 1, 4.
9. Baxter, Christian Directory, ed. 1678, vol. 1, p. 336b.



Richard H. Tawney, La religione e la genesi del capitalismo. Studio storico, Feltrinelli, 1967 (ed. or. 1922/1926).

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