Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale

[Il libro di Huntington fece scalpore e destò molte critiche da parte delle anime belle del multiculturalismo. La tesi di fondo è che, al di là delle ideologie di superficie di più recente acquisizione, i veri tratti connotativi di fondo che emergono nei conflitti tra diverse civiltà sono di ordine religioso (della religione intesa in senso lato, come creatrice di visioni del mondo e di valori di riferimento, ecc. che permangono anche nelle società secolarizzate). Le religioni, nel bene e nel male, connotano potentemente ancor oggi le varie civiltà. Huntington si inserisce nel filone di chi, come Weber, ma anche come Jung, ha visto nell'ideologia religiosa un formidabile strumento ideologico di trasformazione del mondo]



"Saremo moderni, ma non saremo come voi".

La religione, autoctona o importata che sia, offre dei valori ed un senso di orientamento alle élite emergenti delle società in via di modernizzazione. «L’attribuire valore a una religione tradizionale», ha osservato Ronald Dore, «è una rivendicazione di pari dignità nei confronti delle altre nazioni dominanti, nonché spesso - come obiettivo più immediato - di una classe dirigente locale che ha abbracciato valori e stili di vita di quelle stesse nazioni». «Più di ogni altra cosa», osserva William McNeill, «la riaffermazione dell’islamismo, quale che sia la forma specifica di settarismo da esso assunta, significa il ripudio dell’influenza americana e europea sulla società autoctona, sulle sue scelte politiche e sui suoi valori morali». In tal senso, la rinascita delle religioni non occidentali è la più possente manifestazione di antioccidentalismo esibita dalle società non occidentali. Non costituisce un rifiuto della modernità: è un rifiuto dell’Occidente e della cultura laica, relativista e degenerata ad esso associata. È un rifiuto di quella che è stata definita l’«intossicazione occidentale» delle società non occidentali. È una dichiarazione di indipendenza culturale dall’Occidente, la fiera dichiarazione che «saremo moderni, ma non saremo come voi». [In realtà non sarete mai moderni, in quanto rifiutate i valori (per voi disvalori) prodotti dalla modernità. La modernità, infatti, ha preso corpo in opposizione alla visione tradizionale del mondo. Insomma, non è sufficiente usare uno smartphone per essere moderni] [pp. 141-142]


Il virus occidentale e la schizofrenia culturale. 

Mentre i leader australiani partivano alla ricerca dell’Asia, quelli di altri paesi in bilico - Turchia, Messico, Russia - tentavano di inglobare l’Occidente nella propria società, e viceversa. L’esperienza, tuttavia, dimostra chiaramente la forza, la resistenza e la pervicacia delle culture autoctone e la loro capacità di rinnovarsi e frenare, respingere e assorbire le importazioni occidentali. Se una chiusura totale all’Occidente è inattuabile, la soluzione kemalista si è dimostrata fallimentare. Se intendono modernizzarsi, le società non occidentali devono farlo a modo loro, non alla maniera degli occidentali, e fondare, come ha fatto il Giappone, sulle proprie tradizioni, valori e istituzioni.

I leader politici tanto tracotanti da pensare di poter stravolgere e riforgiare da capo sin nelle fondamenta la cultura della propria società sono destinati a fallire. Possono introdurre alcuni ingredienti della cultura occidentale, ma non sopprimere o eliminare per sempre gli elementi di fondo della propria cultura autoctona. Viceversa, una volta inoculato in un’altra società, il virus occidentale è difficile da espungere. Non è letale ma permane nell’organismo; il paziente sopravvive, ma non guarisce mai. I leader politici possono fare la storia, ma non possono sfuggirvi. Producono paesi in bilico, non creano società occidentali. Infettano il proprio paese con una schizofrenia culturale che finisce col diventarne l’elemento costante e caratterizzante. [Quello che dimostra il fallimento della modernizzazione turca, come pure quello di molti altri paesi islamici che hanno tentato una meno radicale occidentalizzazione, è che l'Islam produce una visione del mondo fortemente impermeabile alle esigenze della modernità. Cosa che non si è invece verificata, per es., in Giappone, dove, pur in presenza di una società fortemente impregnata di valori tradizionali, si è assistito ad una modernizzazione assolutamente strabiliante. La quale non ha però comportato la cancellazione della cultura tradizionale, che è sopravvissuta in una sorta di corsia parallela a quella di importazione occidentale. Caso più unico che raro di felice integrazione di modelli culturali allogeni] [pp. 223-224]


La forte propensione ai conflitti delle nazioni islamiche.

In qualsiasi punto dell’Islam si guardi, i musulmani sembrano far fatica a vivere in pace con i propri vicini. Viene dunque naturale chiedersi se tale modello tardo-novecentesco di conflittualità tra gruppi musulmani e non musulmani valga anche per i rapporti tra gruppi di altre civiltà. I fatti dicono di no. I musulmani costituiscono circa un quinto della popolazione mondiale, ma negli anni Novanta la loro percentuale di coinvolgimento in atti di violenza tra comunità locali è superiore a quella di qualsiasi altra civiltà. Le indicazioni al riguardo sono evidenti.


1. I musulmani sono stati coinvolti in ventisei dei cinquanta conflitti etno-politici scoppiati nel 1993-94 e analizzati in dettaglio da Ted Robert Gurr (Tabella 10.1). Venti tra questi conflitti erano tra gruppi di civiltà diverse e, di questi, quindici tra musulmani e non musulmani. In breve, il numero di conflitti tra civiltà che ha coinvolto i musulmani è tre volte superiore a quello dei conflitti tra civiltà non musulmane. Anche il numero di conflitti scoppiati all’interno del mondo islamico è maggiore di quelli verificatisi nell’ambito di qualsiasi altra civiltà, compresi i conflitti tribali in Africa. A differenza dell’Islam, l’Occidente è stato coinvolto soltanto in due conflitti interni e due con altre civiltà. Le guerre che hanno i musulmani come protagonisti tendono inoltre a essere particolarmente pesanti in termini di vittime. Delle sei guerre che Gurr ritiene abbiano provocato oltre duecentomila vittime, tre (Sudan, Bosnia, Timor orientale) erano tra musulmani e non musulmani, due (Somalia, Iraq-curdi) tra musulmani e solo una (Angola) tra non musulmani.

2. Il «New York Times» ha individuato quarantotto luoghi teatro nel 1993 di circa cinquantanove conflitti etnici. In metà di essi i musulmani si scontravano con altri musulmani o con non musulmani. Trentuno di quei cinquantanove conflitti erano tra gruppi di civiltà diverse e, a conferma dei dati di Gurr, due terzi (ventuno) di essi vedevano impegnati i musulmani (Tabella 10.2).

3. In una terza analisi, nel 1992 Ruth Leger Sivard ha individuato ventinove guerre (definendo tali i conflitti che causavano ogni anno mille o più vittime) in corso. Nove guerre di civiltà su dodici erano tra musulmani e non musulmani: anche in questo caso dunque il numero di conflitti che vede coinvolti i musulmani è superiore a quello di qualsiasi altra civiltà.



Tre differenti analisi giungono dunque alla medesima conclusione: nei primi anni Novanta i musulmani erano coinvolti più di qualsiasi altra comunità in conflitti con gruppi diversi, e dai due terzi ai tre quarti di tutte le guerre tra civiltà in corso nel mondo vedevano contrapposti musulmani e non musulmani. I confini dell’Islam grondano sangue, perché sanguinario è chi vive al loro interno.

La propensione dei musulmani alla conflittualità violenta risalta altresì dal grado di militarizzazione delle civiltà musulmane. Negli anni Ottanta i paesi musulmani presentavano un tasso di militarizzazione (vale a dire il numero di militari per ogni mille abitanti) e un indice di propensione militare (il tasso di militarizzazione in rapporto al livello di benessere di un paese) significativamente più alto di quelli di altri paesi. Nei paesi cristiani, viceversa, entrambi i tassi risultavano più bassi di quelli degli altri paesi. Entrambi i tassi dei paesi musulmani erano all’incirca il doppio di quelli dei paesi cristiani (Tabella 10.3). «È del tutto evidente», conclude James Payne, «che esiste una correlazione diretta tra Islam e militarismo».



I paesi musulmani e cristiani sono quelli in cui oltre l’80 per cento della popolazione aderisce alla religione principale.

Gli stati musulmani hanno anche dimostrato un’alta propensione alla violenza in occasione di crisi internazionali. Tra il 1928 e il 1979 vi hanno fatto ricorso per risolvere 76 crisi su un totale di 142. In 25 di questi casi, la violenza è stata il principale strumento di soluzione della crisi, mentre negli altri 51 è stata solo uno degli strumenti impiegati. In tutti i casi in cui gli stati musulmani hanno fatto ricorso alla violenza, il suo livello è sempre stato altissimo: nel 41 per cento dei casi è scoppiata una guerra di dimensioni globali, mentre conflitti di vaste dimensioni si sono avuti in un altro 38 per cento dei casi. Se gli stati musulmani hanno fatto ricorso alla violenza nel 53,5 per cento delle crisi che li ha visti come protagonisti, per quanto concerne il Regno Unito ciò è avvenuto solo nell’11,5 per cento dei casi, per gli Stati Uniti nel 17,9 per cento e per l’Unione Sovietica nel 28,5 per cento. Tra le grandi potenze solo la Cina ha mostrato una propensione alla violenza maggiore degli stati musulmani: il 76,9 per cento delle crisi in cui è stata coinvolta. La bellicosità e la violenza musulmane di fine secolo sono una realtà che né i musulmani né altri possono negare. [pp. 381-384]


L'illusione del multiculturalismo: l'esempio della Bosnia.

Una drammatica intensificazione delle identità culturali si è manifestata in Bosnia, e in particolare nella sua comunità musulmana. Storicamente le identità di gruppo non erano mai state forti in Bosnia: serbi, croati e musulmani vivevano pacificamente gli uni accanto agli altri. I matrimoni misti erano pratica comune, le identificazioni religiose molto tenui. I musulmani, si era soliti dire, erano bosniaci che non frequentavano la moschea, i croati erano bosniaci che non frequentavano la basilica e i serbi erano bosniaci che non frequentavano la chiesa ortodossa. Una volta frantumatasi la più ampia identità jugoslava, tuttavia, le identità religiose tornarono ad assumere grande importanza, e gli scontri, una volta iniziati, si diffusero e intensificarono rapidamente. La commistione etnica si dissolse, e ciascun gruppo si identificò sempre più con la propria specifica comunità culturale definita in termini religiosi. I serbi bosniaci divennero accesi nazionalisti e si identificarono con la Grande Serbia, con la Chiesa ortodossa serba e con la più generale comunità ortodossa. I croati bosniaci divennero i più ferventi fautori del nazionalismo croato, si considerarono cittadini della Croazia, rinsaldarono il loro cattolicesimo nonché, insieme ai croati di Croazia, i loro legami con l’Occidente cattolico.

Ancor più intenso fu il risveglio di coscienza tra i musulmani. Prima che scoppiasse la guerra, i musulmani bosniaci esibivano un atteggiamento fortemente laico, si consideravano europei ed erano i più accesi sostenitori di una società e di uno stato bosniaco multiculturale. Questo atteggiamento tuttavia mutò non appena la Jugoslavia si dissolse. Al pari di serbi e croati, alle elezioni del 1990 i musulmani voltarono le spalle ai partiti multiculturali, votando in massa per il Partito musulmano di azione democratica (Sda) guidato da Izetbegovic, un fervente religioso imprigionato dal governo comunista per il suo attivismo islamista, e che in un libro pubblicato nel 1970 dal titolo La dichiarazione islamica sostenne l’«incompatibilità dell’Islam con i sistemi non islamici. Non può esserci pace né coesistenza tra la religione islamica e le istituzioni sociali e politiche non islamiche». Una volta acquistata forza sufficiente, il movimento islamico dovrà conquistare il potere e creare una repubblica islamica. In questo nuovo stato, sarà particolarmente importante che istruzione e mezzi di comunicazione «siano nelle mani di persone la cui morale islamica e la cui autorità intellettuale siano indiscutibili».

Quando la Bosnia è diventata indipendente, Izetbegovic ha perorato la creazione di uno stato multietnico nel quale i musulmani sarebbero stati il gruppo dominante sebbene non maggioritario. Tuttavia non era certo in grado di opporsi all’islamizzazione del suo paese prodotta dalla guerra. La sua riluttanza a ripudiare pubblicamente ed esplicitamente La dichiarazione islamica suscitò forte apprensione nei non musulmani. Col proseguire della guerra, serbi e croati bosniaci cominciarono a emigrare dalle aree controllate dal governo bosniaco, e chi rimase si vide gradualmente escluso dai posti più ambiti e dalla partecipazione alle istituzioni sociali. «L’islamismo acquistò maggiore importanza all’interno della comunità nazionale musulmana, e ... una forte identità nazionale musulmana divenne parte integrante della vita politica e religiosa». Il nazionalismo musulmano, in contrapposizione al nazionalismo multietnico bosniaco, ha trovato sempre più spazio nei mezzi di comunicazione. L’insegnamento religioso si è espanso nelle scuole e nuovi libri di testo sottolineano i benefici effetti del dominio ottomano. La lingua bosniaca viene promossa come distinta da quella serbo-croata e sempre più arricchita di parole turche e arabe. I funzionari governativi si scagliano sempre più contro i matrimoni misti e contro la diffusione della musica «degli aggressori», vale a dire serba. Il governo ha incoraggiato la reli-gione islamica e privilegiato i musulmani nelle assunzioni e promozioni. Fatto ancor più significativo, l’esercito bosniaco è stato islamizzato: nel 1995 il 90 per cento del suo personale era costituito da musulmani. Sempre più alto è il numero di soldati che si professano islamisti e che adottano consuetudini e simboli islamici. Le unità speciali sono state ampliate di numero e totalmente islamizzate. Questa tendenza ha sollevato le proteste - completamente ignorate - di cinque membri (di cui due croati e due serbi) del governo bosniaco di Izetbegovic, e nel 1995 ha portato alle dimissioni del primo ministro Haris Silajdzic, di orientamento multietnico.

Dal punto di vista politico, il partito musulmano di Izetbegovic, lo Sda, ha esteso il proprio controllo sullo stato e la società bosniaca. Nel 1995 dominava «l’esercito, l’amministrazione statale e le imprese pubbliche». «I musulmani non iscritti al partito», fu riferito, «per non parlare dei non musulmani, fanno fatica a trovare un lavoro decente». Il partito, accusarono i suoi critici, è «diventato uno strumento di autoritarismo islamico caratterizzato dai metodi di un governo comunista». Nel complesso, ha commentato un altro osservatore,

Il nazionalismo musulmano sta diventando sempre più estremistico. Non tiene più in alcun conto altre sensibilità nazionali; è proprietà, prerogativa e strumento politico della nazione musulmana oggi predominante. ...
Principale conseguenza del nuovo nazionalismo musulmano è una tendenza all’omogeneizzazione nazionale. ...
Il fondamentalismo religioso islamico sta inoltre diventando il criterio predominante di determinazione degli interessi nazionali musulmani. 

L’intensificazione dell’identità religiosa prodotta dalla guerra e dalle operazioni di pulizia etnica, le inclinazioni dei suoi leader, il sostegno e le pressioni di altri stati musulmani hanno lentamente ma ineluttabilmente trasformato la Bosnia dalla Svizzera dei Balcani nell’Iran dei Balcani. [pp.399-401]


L'illusione dell'universalismo occidentale.

La diversità di culture e civiltà contrasta con la certezza occidentale - e americana in particolare - della rilevanza universale della cultura occidentale. Una certezza espressa sia a livello espositivo che normativo. Nel primo caso, sostiene che le popolazioni di tutte le società desiderano adottare valori, istituzioni e pratiche occidentali. Laddove sembrano non manifestare questo desiderio e restare fedeli alle proprie culture tradizionali, esse sono vittime di una «falsa coscienza» paragonabile a quella rilevata dai marxisti tra i proletari che sostenevano il capitalismo. A livello normativo, il credo universalista occidentale afferma che i popoli di tutto il mondo dovrebbero abbracciare cultura, valori e istituzioni occidentali perché essi rappresentano la forma di pensiero più alta, più illuminata, più liberale, più razionale, più moderna e più civile di tutta l’umanità.
Nell’emergente mondo di conflittualità etnica e di scontri tra civiltà, la fede occidentale nella validità universale della propria cultura ha tre difetti: è falsa; è immorale; è pericolosa. La sua non veridicità costituisce la tesi centrale di questo libro, una tesi ben riassunta da Michael Howard: «la diffusa convinzione occidentale secondo cui la diversità culturale sia una curiosità della storia sempre più velocemente erosa dallo sviluppo di una comune cultura mondiale anglofona ed orientata a Occidente, che modella tutti i nostri valori di fondo ... è semplicemente infondata». Chiunque non sia ancora convinto della saggezza delle osservazioni di sir Michael vive in un mondo completamente estraneo a quello descritto in questo libro.

La convinzione che i popoli non occidentali dovrebbero adottare cultura, valori e istituzioni occidentali è immorale per le conseguenze che essa implicherebbe. Il dominio quasi universale del potere europeo nel tardo Ottocento e quello planetario degli Stati Uniti nel tardo Novecento hanno diffuso moltissimi aspetti della civiltà occidentale in tutto il mondo. L’universalismo europeo, tuttavia, non esiste più. L’egemonia americana si sta riducendo, se non altro perché non più necessaria a proteggere gli Stati Uniti da una minaccia militare sovietica. La cultura, come abbiamo già detto, segue il potere. Se le società non occidentali torneranno un giorno ad essere modellate sulla cultura occidentale, ciò accadrà solo come conseguenza di un’espansione e dispiegamento del potere occidentale. L’imperialismo è l’inevitabile corollario dell’universalismo. Inoltre, in quanto civiltà matura l’Occidente non ha più il dinamismo economico o demografico necessario per imporre la propria volontà ad altre società, senza contare che qualsiasi tentativo in tal senso è contrario ai valori occidentali di autodeterminazione e democrazia. Via via che la civiltà asiatica e quella musulmana inizieranno ad affermare con sempre maggior forza il carattere universale delle proprie culture, gli occidentali finiranno col rendersi conto sempre più chiaramente del rapporto che esiste tra universalismo e imperialismo.
L’universalismo occidentale, infine, è pericoloso per il mondo perché potrebbe portare ad una grande guerra tra stati guida di civiltà diverse ed è pericoloso per l’Occidente perché da questa guerra potrebbe uscire sconfitto. [...]

Tutte le civiltà attraversano processi simili di nascita, espansione e declino. L’Occidente si differenzia dalle altre civiltà non per il modo in cui si è sviluppato, ma per la peculiarità dei propri valori e delle proprie istituzioni. Queste comprendono in particolare il cristianesimo, il pluralismo, l’individualismo e lo stato di diritto, che ha permesso all’Occidente di inventare la modernità, espandersi in tutto il mondo e suscitare l’invidia di altre società. Nel loro complesso, queste caratteristiche sono peculiari dell’Occidente. L’Europa, ha affermato Arthur M. Schlesinger Jr., è «la fonte, l’unica fonte» degli «ideali di libertà individuale, democrazia politica, stato di diritto, diritti umani, libertà culturale ... Tutti questi sono ideali europei, non asiatici, africani, né mediorientali, se non per adozione». Essi fanno della civiltà occidentale qualcosa di unico e la rendono dunque importante non perché universale ma perché unica. La principale responsabilità dei leader occidentali, dunque, non è tentare di rimodellare altre civiltà a immagine e somiglianza dell’Occidente - cosa che va al di là delle loro sempre più ridotte capacità - bensì preservare, proteggere e rinnovare le qualità peculiari della civiltà occidentale. Essendo il più potente tra i paesi occidentali, questa responsabilità ricade in grandissima parte sugli Stati Uniti d’America. [pp. 462-464]


Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 2017 (ed. or. 1996), [Sottolineature mie. Ho omesso tutte le note al testo. I commenti in blu tra parentesi quadre sono miei.]

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