I benefici economici del calvinismo e i danni del neofeudalesimo

In quella parte d'Europa, che è stata toccata dalla rivoluzione calvinista, come l'Olanda, l'Inghilterra, ed entro certi limiti la Francia stessa, il rialzo di valore della terra e l'aumento di circolante, determinati dall'inflazione, sotto il pungolo di una mentalità capitalistica, si sono tradotti in una corsa alle bonifiche ed all'investimento di capitali in migliorie agrarie, e quindi in un arricchimento dei proprietari terrieri ed in una loro più intima connessione col moto capitalistico del commercio e dell'industria delle città. Ma dove, viceversa, la rivoluzione calvinista non ha attecchito, è prevalsa la mentalità dell'hidalgo spagnolo che, in antitesi appunto con quella calvinista, tratta il lavoro come cosa degradante, vede nel risparmio e nella cura attenta degli affari un indice di avarizia e di meschinità d'animo, e considera la prodezza nelle armi come la più ammirabile delle virtù ed un ozio fastoso come l'ideale di vita del gentiluomo.

E le conseguenze di questo andazzo, a cinquanta anni di distanza dallo scoppio dell'inflazione, cominciano a farsi visibili. Se ieri Lorenzo il Magnifico in persona sbrigava tutti i suoi affari politici e finanziari con l'aiuto di un solo segretario, oggi non c'è più casa patrizia che non mantenga un vero esercito di servitori, di cavalli, di bravacci, di parassiti. Un gentiluomo del Seicento non si fa rispettare, se non dimostra una totale noncuranza in fatto di denaro e un'illimitata capacità di sperpero. E alla lunga, con un simile tenor di vita, non c'è inflazione che tenga: con tutte le sue terre ed il suo grano, l'aristocrazia fastosa ed irresponsabile del Seicento si trova daccapo a corto di denaro e deve darsi da fare per procurarselo. Quando ha dilapidato le sue rendite, però, l'aristocrazia non ha nessuna voglia di scendere tra le file spregiate di chi lavora per vivere. E non ha nemmeno voglia di alienare i suoi patrimoni fondiari, perché le terre nella psicologia neo-feudale che essa si è creata, sono il simbolo tangibile del suo predominio di casta. Essa quindi, invece di liquidare, cerca di immobilizzare ancora di più i propri patrimoni, coprendoli di una selva di diritti di maggiorascato e di fideicommisso, onde impedire le divisioni per eredità e assicurare invece la trasmissione integrale dei beni gentilizi dall'uno all'altro maschio primogenito. Perciò la terra non passa più dalle mani dei proprietari meno capaci a quelle di nuovi proprietari più abili ed industriosi, ma resta pietrificata nei maggiorascati e fideicommissi della nobiltà o nei latifondi della manomorta ecclesiastica, cioè resta in mani che non hanno alcuno stimolo a farla fruttare di più, e dietro alle quali è assente ogni impulso capitalistico. Viceversa, non avendo più denaro proprio da sprecare, la nobiltà cerca il denaro altrui, cioè il denaro di tutti quelli che lavorano, guadagnano e pagano imposte. Siccome l'apparato statale è caduto ormai in gran parte nelle mani della casta neo-feudale, questa ne approfitta per dare l'arrembaggio all'erario pubblico. Riparata dai propri privilegi immunitari, rispetto al fisco, si attacca alla greppia dello Stato, tartassa a sangue con le imposte gli altri ceti sociali, a cominciare dai più poveri e dai più indifesi, e riempie il sacco a man salva, con una voracità e un'impudenza, che trasformano la pacificazione reciproche tra corone ed aristocrazie in un gigantesco compromesso per divorarsi d'amore e d'accordo i sudori del Terzo Stato. Inutile spiegare ormai perché fenomeno neo-feudale e reazione anti-calvinista vadano così mirabilmente d'accordo in tutta l'Europa.

Il sistema dei maggiorascati, a sua volta, crea tutta una plebe nobiliare di cadetti, altrettanto orgogliosa quanto famelica, che non ha altro rimedio alla sua miseria che l'ingrossare le file dell'esercito o del clero. È facile immaginarsi che benefico effetto abbia sulla moralità del clero questo fiume di gente, in cerca di una sistemazione economica, che reca nel ministero sacerdotale tutto fuori che un'autentica vocazione religiosa. Ma è facile immaginarsi anche l'effetto che sulla disciplina militare ha questa invasione di pitocchi tracotanti nelle file degli eserciti. Alessandro Dumas ha usato i colori più seducenti della propria tavolozza per dipingerci il suo d'Artagnan, con la spada sempre sguainata nei duelli e le tasche eternamente al verde. Ma difficilmente il capo della polizia di una città moderna sarebbe entusiasta nel vedere parecchi tough guys, del genere del d'Artagnan e dei suoi tre leggendari amici, circolare impunemente per le strade. E anche un colonnello del secolo XX difficilmente saprebbe molto che farsi nel proprio reggimento di reclute così movimentate ed elastiche in fatto di disciplina.


Giorgio Spini, Storia dell'età moderna, Cremonese, 1960, pp. 370-372.

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