I motivi del ritardo dell'Islam rispetto all'Occidente

[Non pare che le cose siano cambiate di molto dal '700 ad oggi al riguardo della civiltà islamica. Le considerazioni di Spini - che mettono l'accento sulla visione del mondo dell'homo islamicus - colgono aspetti che ancora oggi emergono osservando le vicende politiche in cui si dibattono molti stati musulmani. Ci sono dei limiti di fondo insuperabili nella visione islamica del mondo che ne impediscono l'evoluzione in senso liberale e democratico sul modello degli stati occidentali]

Poiché la crisi colpisce tutti gli imperi musulmani, bisogna dedurne che, ai primi del sec. XVIII, l'Islam comincia a non offrire più quell'incentivo dinamico, che esso aveva dato in altri tempi alla costruzione e conservazione di grandi organismi statali, con il suo entusiasmo religioso ed il suo codice etico-giuridico, il suo anelito egualitario od il suo bellicoso proselitismo. Ed in effetti, mentre l'Evangelo, come dice il suo stesso nome, è anzi tutto annunzio, cioè voce che fa sentire la caducità del presente ed esorta a guardare con speranza verso l'avvenire, il Corano è più che altro un codice, cioè un complesso di norme, che per sua natura tende ad immobilizzare i rapporti umani. L'idea di progresso è connaturata con le origini cristiane della civiltà moderna ed è anzi quella che fa essere la civiltà occidentale tanto diversa dalle altre, orientate verso una concezione ciclica del mondo e della storia. È viceversa estranea alla civiltà musulmana, la quale può eventualmente accogliere i risultati dell'altrui progresso, qualora conciliabili con la legge del Corano, ma non è necessariamente sollecitata a cercare di propria volontà nuove strade. Periodicamente, dunque, il mondo islamico corre il rischio di trovarsi distanziato da quello occidentale e di dovere affrontare una laboriosa crisi di aggiornamento, salvo poi a ricadere daccapo nella sua tendenziale immobilità. Come la sua forza è costituita dalla propria capacità di assorbire elementi dell'altrui civiltà, inquadrandoli entro la cornice pragmatica, egualitaria, relativamente semplice della legge coranica, così il suo pericolo è costituito dalla possibilità, sempre esistente, di richiudersi su se medesimo e vegetare passivamente. Ai primi del secolo XVIII, l'Occidente può già vivere dei frutti delle sue grandi rivoluzioni dei secoli XVI e XVII, dalle nuove strutture politiche e sociali uscite dalla Riforma alle grandi navigazioni transoceaniche e dai miracoli della scienza, scaturiti dalla rivoluzione del sapere, sino ai progressi incalzanti della tecnica industriale e commerciale; l'Islam viceversa, che a questo processo di evoluzione non ha contribuito in alcun modo, rischia ormai di rimanere travolto e soverchiato.

Oltre a ciò, lo Stato islamico è troppo strettamente connesso con il concetto della guerra santa, per non risentirne alla lunga gli effetti deleteri. L'Occidente cristiano, persino nei secoli più ferrei del Medioevo, ha sempre collegato in qualche modo il concetto dello Stato e della sua autorità a quello della pace: il principe cristiano trae in sostanza il proprio potere dalla sua funzione di custode della pace, rispetto ai nemici esterni e ai malvagi interni. Viceversa il califfo od il sultano sono anzitutto la spada di Allah, per l'espansione della fede, attraverso la guerra santa. Se dunque ad Occidente le arti della pace, creatrici di civile progresso, finiscono sempre, prima o poi, con l'imporsi sulla forza delle armi, nell'Oriente islamico la casta guerriera non perde mai completamente la propria superiorità. Già minacciato di cadere nell'immobilismo a causa del suo retaggio legalistico coranico, l'Islam rischia ugualmente di essere paralizzato nel proprio sviluppo intellettuale e materiale dalla gravosa prevalenza dei signori della guerra.

E questo, ai primi del Settecento, comincia a tradursi anche in paralisi militare, in quanto la guerra stessa è diventata ormai un problema tecnico, che l'Islam non sa più risolvere con le proprie forze. Poiché non si è mai curato di creare qualcosa di simile ai grandi commerci transoceanici degli occidentali, adesso non può competere nella guerra marittima coi poderosi vascelli dei cantieri europei: poiché si è immobilizzato nelle proprie tradizioni, non ha più che il numero da contrapporre alle micidiali armi da fuoco od alla perfezionata tattica delle truppe occidentali.  E le guerre turchesche o le campagne indiane del sec. XVIII dimostreranno ben presto come il numero stesso sia impotente di fronte alla superiorità di armamento e di preparazione tecnica. Ma poiché lo Stato islamico vive in funzione della guerra santa, ogni crisi militare si traduce irreparabilmente in crisi politica: il sultano che non riesce più a condurre alla vittoria i credenti, è un sultano che non riesce più a farsi ubbidire. Il collasso militare crea irreparabilmente il collasso dell'autorità statale e scatena la ridda delle lotte per il potere, accelerando il processo di decomposizione. Dal colmo della potenza, gli imperi islamici si avviano con rapidità stupefacente verso l'estremo sfacelo.

Per il suo carattere guerresco, infatti, l'Islam conosce piuttosto l'eguaglianza dei credenti davanti alla legge, che la loro libertà personale. Il condottiero della guerra santa è un dittatore dai poteri illimitati, che ignora la barriera invalicabile opposta all'autorità del principe da quella del sacerdozio e del papato, negli stati cattolici, ovvero dal sacerdozio universale dei credenti negli stati protestanti. E poiché potere illimitato significa illimitata identificazione dello Stato con la persona del sovrano, lo Stato islamico è forte o debole nella misura appunto in cui è forte o debole la mano che ne stringe le redini: strumento terribile di conquista nelle mani di un dittatore energico ed intraprendente, diventa cadavere in decomposizione nelle mani di un tirannello fiacco ed incapace. D'altra parte, potere assoluto significa assoluta possibilità di malgoverno, di cieco egoismo o sfrenata dissolutezza da parte di chi detiene il comando. Cronicamente, il mondo islamico è esposto all'alternarsi sul trono di formidabili despoti, creatori d'imperi in rapidissimo volgere di anni, e di larve umane intorpidite dagli ozi dell'harem e dalle lusinghe di un potere senza controllo, foriere di altrettanto rapide catastrofi.

Anziché res publica, alla cui conservazione sia interessato tutto un popolo od almeno tutta una casta dirigente, solidale negli interessi e negli  ideali, lo Stato islamico diventa allora lo strumento privato dell'egoismo ed eventualmente del capriccio di un singolo: ferreo fino a che riesca ad imporsi col terrore, si affloscia di colpo non appena la stretta del terrore si allenti. Ed il suo declino non apre la via all'affermazione di forze più sane e capaci di costruire attorno a sé una vasta unità di consensi, ma unicamente al disfrenarsi di altri egoismi singoli o di gruppo. Funzionari, militari, possenti consorterie di palazzo si affrettano ad impadronirsi dello strumento del terrore e dello sfruttamento, onde servirsene nel proprio interesse od impedire ad altri di servirsene al loro danno. La lotta per il potere, non esistendo gradi intermedi fra assoluto dominio ed assoluta schiavitù, è anch'essa lotta all'ultimo sangue, che si può concludere solo con la distruzione fisica di uno dei contendenti. Non esistendo altro vincolo che quello tra padrone assoluto e servo, non c'è neppure alcuna solidarietà - sia pure quella elementare della consanguineità - che limiti l'imperversare della strage od assicuri dall'altrui tradimento e sopraffazione. La storia dei despotati islamici, ogni qual volta si indebolisce il potere del sovrano, diventa storia monotona e truce di congiure di palazzo, di sedizioni militari, di congiure di pascià, di tragedie familiari o di harem, di inenarrabili sofferenze degli anonimi greggi umani esposti senza difesa alle spoliazioni ed alle crudeltà dei potenti.


Giorgio Spini, Storia dell'età moderna, Cremonese, 1960, pp. 816-818.

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