Il calvinista e la società capitalistica

Il puritano è un uomo terribilmente solo. Non ha alcun intermediario terreno fra sé ed un Dio dai giudizi imperscrutabili come l'abisso: non ha alcuno di quei conforti, come le pratiche devote, le cerimonie liturgiche, l'estasi mistiche, in cui altri può placare il tormento del proprio spirito. La sola garanzia di essere nella grazia di Dio consiste per lui nell'avere una vocazione, cioè un dovere da compiere ed un lavoro cui attendere. Perciò egli è l'uomo del lavoro per definizione: infaticabile, coscienzioso, sobrio, metodico. Non è meno asceta, in fine dei conti, del monaco del Medioevo. Ma è l'asceta che, invece di fuggire dal mondo, vi sta in mezzo, malinconico ed inflessibile, ad attuare i piani di Dio. Invece del romitorio, ha la bottega e l'opificio, dove si accumulano delle ricchezze, di cui la sua coscienza non gli permette di attingere che parte minima per le sue necessità personali. Invece del monastero, ha la famiglia, in cui sta senza evasioni romantiche né sorridenti concessioni alla carne, come si sta sul campo del proprio dovere. Ed è anche un conquistatore, perché è convinto che agli eletti tocchi per decreto di Dio di mettere in atto la propria vocazione, e che la benedizione di Dio, cioè il successo, si accompagni necessariamente con la vocazione. La quale, del resto, non riguarda soltanto la persona del singolo, ma la società tutta, che deve riconoscere la gloria di Dio, dimostrata nella testimonianza vivente degli eletti. [...]

La mentalità calvinistica sembra fatta apposta per modellare il tipo dell'imprenditore. La società vagheggiata dai calvinisti, con la sua libertà per gli eletti di farsi avanti, con la sua demolizione degli arbitrî principeschi e dei privilegi di casta, con la sua concezione del valore del lavoro e dell'avveduto investimento dei capitali a scopo produttivo, col suo orrore per l'ozio e per lo sperpero, e con la sua spinta alla razionalizzazione dell'attività umana, rappresenta il terreno ideale per lo sviluppo della nascente economia capitalistica. Il borghese di ieri - fiorentino, augustano, anversano - viveva inserendosi abilmente in un mondo tuttavia nobiliare e tradizionalistico. Il borghese di oggi non può fare a meno di assoggettare tutto il mondo al ritmo di vita dell'economia capitalistica. Basta tradurre questo in termini etico-religiosi per riconoscervi la volontà del calvinista di imporre a tutta la società la norma della gloria di Dio e quindi della vocazione operosa.

Guardiamolo bene in faccia questo uomo affaccendato e severo, che è il «puritano». Ci parrà forse un po' inconsueto il suo linguaggio, infiorato di citazioni della Scrittura, od indigesta la sua pedanteria moralistica, coprente, magari, una buona dose di farisaismo od una mentalità affaristica, freddamente spietata verso i non-eletti, che alla lunga potrebbero essere niente altro che gli inetti a fare denari. Ma se lo osserviamo con attenzione, capiremo che egli non è che il fratello più anziano di ognuno di noi, uomini del XX secolo. La sua ansia di lavorare, di produrre, di non sprecare tempo e denaro, è l'ansia stessa che domina questo nostro tempo affaccendato e meccanico. La sua casa sobria, confortevole, senza sfarzi, è la nostra home moderna, che nessuno di noi si sentirebbe più di barattare con un palazzo del Rinascimento, scintillante di opere d'arte e privo di un gabinetto da bagno. Persino il suo abito - un abito scuro, di buona stoffa di lana, solida e durevole, ma senza fronzoli, pennacchi o trine - è l'abito che ognuno di noi indossa e che non baratterebbe più davvero per quelle macchine spaventevolmente costose e incomode, che erano gli abiti dell'alta società di trecento o quattrocento anni or sono. La sua concezione di una società, in cui la legge freni gli arbitrî dei despoti ed in cui l'operosità abbia il di sopra sulla prodezza scervellata degli spadaccini, in cui ogni professione abbia la sua dignità, come un sacerdozio, ed ogni capacità possa esprimersi senza impacci di casta, in cui ogni cittadino sia profondamente impegnato nel creare su questa terra un mondo più giusto e rispondente ad una ideale norma di bene, anche se noi le diamo nomi tanto stranamente differenti - liberalismo o democrazia o magari socialismo - è in fondo la nostra concezione. E qualcosa, forse, della malinconia del suo sguardo severo e disilluso sta sul viso di ognuno di noi.

Sforziamoci, per un istante, di metterci nei panni dei nostri avi di quattro secoli or sono. Sforziamoci, per un istante, di spogliare il bel Cinquecento dorato dei suoi affascinanti involucri esteriori, della raffinatezza aristocratica delle sue corti, dello splendore dei suoi artisti, dell'opulenza dei suoi velluti e dei suoi arazzi. Ci troveremo davanti un mondo in cui lusso per gli uni e pitoccheria per gli altri imperano, in cui assassinio e frode rappresentano mezzi affatto consueti per risolvere gli affari pubblici e privati, in cui rubare è la norma della burocrazia ed oziare la legge dei ceti abbienti, in cui la faciloneria e l'imprevidenza sono considerate poco meno che virtù signorili. Pensiamo solamente all'incoscienza con cui è stata mandata al disastro l'Armada Invencible, od a quella con cui i re di Francia e di Spagna hanno sperperato le vite e i beni dei loro sudditi, e domandiamoci cosa succederebbe, non diciamo nel governo della nostra nazione, ma nell'amministrazione dell'ultimo comunello di  montagna, se oggi si adoperassero i metodi di Carlo V e di Francesco I in fatto di denaro. Forse, allora, comprenderemo meglio cosa abbia voluto dire, nella storia dell'Europa, l'arrivo di questo uomo serio e dimesso, capace di lavorare duro e di risparmiare, che paga i suoi debiti fino al centesimo e versa onestamente le tasse al governo, salvo poi ad insorgere per controllare come questi soldi sono stati spesi, che sa come si tengono i conti e si impiantano le industrie, e non ha la minima simpatia per chi butta il denaro dalla finestra o manda in malora una nazione per il gusto di aumentare di qualche miglio quadrato i domini della propria dinastia. Non prendiamo troppo alla leggera quast'uomo avvezzo a pensare con la propria testa, senza attendere il verbo né da re né da papi. E non abusiamo troppo della sua moderazione, nemica delle avventure. Perché, in un caso necessario, lo potremmo trovare terribile.


Giorgio Spini, Storia dell'età moderna, Cremonese, 1960, pp. 334-338.

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