La morale "whig"

La rivoluzione del 1688 e la sconfitta di Luigi XIV sono state indubbiamente due vittorie protestanti. Ed in nome della difesa del protestantesimo, la dinastia hannoveriana ha potuto trapiantarsi in Inghilterra. Ciò che la Gran Bretagna, tuttavia, comincia ad esportare nel continente a partire dai primi del secolo XVIII, non è tanto il materiale originario della sua Riforma religiosa, quanto una serie di sottoprodotti, passati attraverso rielaborazioni tali da aver perduto financo il nome, oltre gran parte del contenuto, di quel materiale originario. L'ideologia inglese del primo Settecento, in effetti, non è più l'ideologia dei Cranmer o dei Cromwell, ma è quella dei whigs, cioè di una classe dirigente, per cui non v'è miglior garanzia di lealismo verso il regime della plutocrazia e verso la dinastia hannoveriana d'uno spirito sicuramente anti-cattolico e possibilmente irriverente anche nei confronti della ortodossia dell'High Church. Cacciati, dunque, Lutero e Calvino in soffitta, questa classe dirigente ha adottato come proprie le posizioni di quel liberal-protestantesimo, di cui già abbiamo visto la nascita nella seconda metà del secolo XVII e lo sviluppo durante la generazione dei Locke, dei Newton e dei Leibniz.

Ma il graduale processo di svalutazione della teologia e delle istituzioni ecclesiastiche, che il liberal-protestantesimo aveva iniziato alla scuola del rigorismo etico dei «precisi» o del sentimentalismo pietista, è arrivato ormai alle sue conclusioni estreme. La riduzione della vita religiosa al puro momento etico si è spinta fino al ripudio di ogni rivelazione ed all'identificazione del cristianesimo con la ragione filosofica, già affacciata dal Locke nella sua opera teorica. La demolizione di ogni «forma» teologica è sboccata nell'istaurazione di un monoteismo razionalistico, il quale si riassume nell'accettazione dell'esistenza di un Essere supremo, filosoficamente dimostrabile, e di una serie di precetti morali che, pure non essendo ancora diversi nella loro sostanza da quelli dell'Evangelo cristiano, preferiscono dirsi fondati sulla «naturale» inclinazione dell'animo umano, anziché sulla rivelazione scritturale. Quella religione noncurante di formule e di cerimonie, pacifista e tollerante, assai più preoccupata di problemi pratici che di definizioni teoriche, la quale già aveva trovato nel Seicento la propria espressione più caratteristica nella Società degli Amici, si trasforma ormai con il Toland in deismo, rifuggente dal qualificarsi non solo come protestantesimo, ma addirittura come cristianesimo.

Il deismo whig è d'accordo col proprio avversario politico Bolingbroke nel ritenere che la filosofia razionalistica sia adatta solo per  le classi colte ed abbienti della società, e che una chiesa stabilita, possibilmente non troppo fastidiosa in fatto di morale e abbastanza accomodante da non perseguitare nessuno con la sua intolleranza, sia necessaria per tenere a freno la canaglia, con lo spauracchio dell'Inferno. Ma risalendo attraverso i tempi verso le posizioni del naturalismo rinascimentale - specie dopo il colloquio istauratosi sul cadere del Seicento tra il liberal-protestantesimo anglo-olandese e lo scetticismo areligioso francese dei Bayle, dei Saint Evremond e dei Fontenelle - i deisti inclinano ad accogliere il mito di una «religione naturale», cioè di una religione primigenia ed universale, incisa dalla natura nel cuore dell'uomo, di cui ogni religione storica non sarebbe che una derivazione o meglio una contraffazione, dovuta alla superstizione dei volghi ed alla ciurmeria interessata dei sacerdoti. Nel paradiso deista, v'è spazio sufficientemente largo per accogliere les honnête gens di ogni nazionalità e religione, purché pratichino la «virtù» e rispettino la «filosofia». L'unica condizione veramente indispensabile è che essi guardino al peccato capitale, per cui il novello credo settecentesco non ammette remissione: il «fanatismo», cioè il seccare gli altri con la propria intolleranza e la propria rabies theologica. A conti fatti, l'entusiasmo stesso, magari per la più nobile delle cause, è impeciato di «fanatismo» e come tale è da ripudiare da tutta la gente di buon senso e di buona filosofia. Un Berkeley troppo accalorato dietro alle utopie della sua filosofia idealistica, farà la figura del matto nella buona società inglese. Sur tout, pas trop de zèle potrebbe essere bene il motto delle classi dirigenti europee del primo Settecento.

Negata in partenza la storia, la generazione cresciuta alla scuola del razionalismo del Leibniz e della scienza del Newton preferisce affidarsi alla natura ed alla ragione. Ciò che è naturale è razionale e viceversa: ciò che viene dalla natura è eternamente buono e valido, sia esso quel «diritto naturale» con cui dal Pufendorff in poi la proprietà privata ha imparato a reagire agli arbitri del potere sovrano, o quella «religione naturale» per cui, in buona fede, il secolo della compagnia delle Indie e dei grandi commerci con la Cina si illude di poter bollire in una sola pentola Gesù Cristo e Confucio, Maometto ed i filosofi indù, ovvero la «morale naturale», di cui sono predicatori quella specie di sacerdoti laici del Settecento che sono i «filosofi». In che precisamente consista questa «morale naturale», lo si vedrà man mano sempre più chiaramente: poiché gli istinti umani sono anch'essi figli della natura e la natura, per definizione, non può aver fatto nulla di male, la migliore morale sarà quella che meglio assicura la ragionevole soddisfazione di questi istinti. Un egoismo ben inteso, affermava già lo Shaftesbury, è la migliore delle norme etiche e la più universale. Bernard of Mandeville si spingerà più oltre sulla via del paradosso, nella sua Favola delle Api, affermando che sono proprio i vizi privati quelli che fanno la felicità pubblica, in quanto il mondo progredisce appunto nella misura in cui gli uomini sono spinti dalle loro ambizioni e cupidigie.

La morale utilitaria dello scetticismo irreligioso, d'altronde, si accorda benissimo con le propaggini estreme di quel puritanesimo, di cui il partito whig ha preso le difese. L'antico concetto della bendizione di Dio sugli eletti, svuotato ormai di ogni tensione spirituale, si presta magnificamente a coprire l'egoismo soddisfatto dei beati possidentes. L'affarista whig ha smesso da un pezzo di frugare con ansia nella propria coscienza per scorgervi la vocazione dell'Eterno, ma non ha perso affatto l'abitudine di considerare i poveri ed i falliti della vita come i reietti di un Dio che, pure essendo ormai quello razionale dei deisti, anziché quello rivelato della Bibbia, non ha perduto nulla della sua spietatezza. Il vangelo che l'Inghilterra whig divulga al resto dell'Europa, è il vangelo del successo e particolarmente del successo economico, riassumentesi nel precetto di arricchirsi al più presto ed il più abbondantemente possibile.

Perciò il paradiso deistico, a prima vista universale, si rivela, in pratica, molto più difficile d'accesso del vecchio paradiso puritano. Attraverso la Grazia, i pezzenti del Taciturno ed i capitani vestiti di rozzo panno del Cromwell avevano diritto di rovesciare i troni dei re ed istaurare la repubblica dei Santi. Attraverso la consacrazione della ricchezza dell'utilitarismo settecentesco, i poveri diavoli non hanno più altra funzione nel mondo che quella di servire col loro sudore e la loro stolidità al sempre crescente benessere degli happy few, provvisti di una solida filosofia «naturale» e di un altrettanto solido credito in banca. Come il credo religioso-filosofico del deismo è per definizione un paradiso riservato alla buona società, da cui la canaglia è rigorosamente esclusa, così il vangelo utilitario della plutocrazia considera le discriminazioni di classe come articolo di fede. I teorici della religione naturale fanno a gara ad estasiarsi davanti alla mirabile armonia con cui la «natura» ha permesso ad illuminati padroni di arricchirsi alle spalle dei loro stolidi, pigri e semi-bestiali operai. Sulla benefica funzione dell'aristocrazia - concepita non più come casta di guerrieri, ma come classe dirigente, provvista di mezzi economici, di alte relazioni sociali e di raffinata educazione, così da potere attendere con decoro e tranquillità alle funzioni pubbliche - nessuno osa sollevare il menomo dubbio.


Giorgio Spini, Storia dell'età moderna, Cremonese, 1960, pp. 759-762.

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