Morte e pianto rituale nel mondo antico

[Morte e pianto rituale nel mondo antico è, a mio giudizio, il libro più importante di Ernesto De Martino; quello in cui, attraverso la prima spedizione di ricerca etnologica sul campo, nelle terre di Lucania e in Romania, De Martino adopera il concetto di "crisi della presenza" nell'analisi approfondita di quello strumento culturale costituito dal compianto funebre e più in generale dai riti funerari. Qui, per la prima volta nelle opere di De Martino, viene spiegata l'origine di una serie di operazioni culturali volte a impedire che la disperazione e il rischio di "passare con ciò che passa" prendano il sopravvento e annientino psicologicamente coloro che sono colpiti da un lutto. Data l'importanza di queste analisi per capire come opera uno strumento culturale, questo sarà un articolo piuttosto lungo, in cui alternerò parti riassunte a citazioni e chiose. Titoli e parti tra parentesi quadre sono miei.]


Che cos'è la crisi della presenza

[I momenti critici della vita, che possono essere un grave lutto, un rovescio economico, una malattia, ecc., espongono l'uomo al rischio di cadere in uno stato pre-culturale, in cui] si configura l'esperienza di un divenire che passa senza e contro di noi, un funesto dominio dell'irrazionale, cioè di un «cieco» correre verso la morte. 

[...]

Il dispiegarsi delle forze naturali ciecamente distruttive, la morte fisica della persona cara, le malattie mortali, le fasi dello sviluppo sessuale, la fame insaziata senza prospettiva, racchiudono - in date circostanze - l'esperienza acuta del conflitto fra la perentorietà di un «dover fare qualche cosa» e il funesto patire del «non c'è nulla da fare», da intendersi non già come rassegnazione morale (nel qual caso sarebbe una forza) ma come crollo esistenziale. Anche determinate esperienze della vita associata, nella misura in cui riproducono il modello naturale della forza spietata che schiaccia, aprono il varco alla possibilità della crisi: si pensi al rapporto dello schiavo rispetto al padrone, o del prigioniero rispetto al nemico che dispone della sua vita, o anche a determinate esperienze-limite di sentirsi travolto da forze economiche o politiche operanti senza e contro di noi con la stessa estraneità e inesorabilità delle forze cieche della natura. In punti nodali o momenti critici come questi si annida la possibilità della crisi radicale e può manifestarsi quella funesta miseria esistenziale per cui ciò che passa ci trascina nel nulla ancor prima che la morte fisica ci raggiunga: ed è quella miseria una catastrofe molto maggiore di questa morte. [Segue una  breve disamina delle teorie che hanno nel passato descritto o accennato a questa "crisi della presenza": Janet, Freud, Hegel]. [pp. 20-25]


La presenza malata

La presenza malata si manifesta allora come presenza apparente, che sta nel presente in modo inautentico, poiché vi patisce il ritorno mascherato e irriconoscibile di un identico passato in cui è rimasta impigliata [...] [Alcuni di questi sintomi De Martino li trae dai resoconti di P. Janet: senso di spersonalizzazione, di vivere in una realtà più simile al sogno, vuota, inattuale, ecc. e anche  di perdita del mondo] avvertito come strano, irrelativo, indifferente, meccanico, artificiale, teatrale, simulato, sognante, senza rilievo, inconsistente e simili.  [...][Insomma, un tipico quadro psicopatologico in cui] il mondo diventa irrelativo, senza eco di memorie e di affetti, simile a uno scenario [dove] gli oggetti perdono rilievo e consistenza [...], si pongono fuori della realtà storica. [...] [Sono avvertiti] come forze in atto di scaricarsi, come oscure tensioni spianti la più piccola occasione per frantumare le barriere che li trattengono [...] [diventando così] potenze cieche ed estranee, che si scaricano disarticolando il reale, e incombendo minacciosamente sulla presenza [...] Si ha allora la terrificante esperienza dell'universo in tensione, sul punto di annientarsi in una immane catastrofe. [...] [Segue un elenco di vari sintomi, tipici del rischio della perdita della presenza: angoscia, ritualismo nell'agire e stereotipie, rifugio nella destorificazione attraverso simboli protettivi, o anche un'attività frenetica, irrelata e maniacale. In particolare l'angoscia] indica che la presenza resiste alla sua disgregazione: ma le resistenze e le difese che hanno luogo in regime di crisi hanno il carattere comune di essere sostanzialmente improprie, in quanto non ripristinano la signoria del mondo dei valori e non valgono a reintegrare in modo attivo nella realtà storica di cui si fa parte. [Ciò che può portare come nel caso di uno schizofrenico studiato da Arieti ad evitare ogni tipo di azione], per ridursi infine all'immobilità assoluta dello stupore catatonico. [Nel caso del ritualismo dell'agire si ha invece la ricerca in un rifugio che permette di "stare nell'esistenza senza starci", simile a quello che si ottiene con i riti magici e religiosi, ma con la differenza che in questo caso non ci si reintegra nella cultura, cioè nel normale operare di una vita sana. Analoghe considerazioni valgono per la destorificazione operata per simboli protettivi, volta a deresponsabilizzare l'iniziativa e a "stare nella storia senza starci", come nel caso di chi ha bisogno di scorgere segni di buono o cattivo auspicio in qualunque cosa gli capiti sotto gli occhi, onde liberarsi dall'angoscia di prendere decisioni. Anche in questo caso vi sono delle analogie con l'esperienza magico-religiosa ma] i veri miti [...] ridischiudono [...] determinati valori sociali, politici, morali, poetici e conoscitivi, mentre i simboli allusivi a cui ricorre la presenza malata sono conati individuali del tutto vuoti di prospettiva culturale, e perciò sterili anche sul piano tecnico sul quale si muovono. [Un ulteriore espediente della presenza malata è il rifugio in un "fare" irrelato e frenetico, che non dà luogo ad un trascendimento nel valore, ma per es.] all'appropriazione materiale di oggetti privi di significato attuale, alla mania del raccogliere e del conservare, alla incorporazione nelle cavità naturali del corpo, alla fame insaziabile di cibo e all'ingestione di oggetti anche non commestibili, allo sfrenato erotismo, al furore distruttivo e omicida. [pp. 26-35]


La funzione protettiva (destorificante) della religione

[Il rischio della perdita della presenza è massimo nelle società primitive, dove le occasioni di crisi esistenziali sono molto più frequenti che nelle nostre società industrializzate: incontri con animali pericolosi; attraversamento di territori sconosciuti; esiti incerti della caccia, da cui dipende il sostentamento della propria comunità; vicende meteorologiche avverse che mettono a repentaglio raccolti e bestiame; epidemie sterminatrici, ecc. Alcune di queste occasioni di crisi perdurano anche nelle nostre società (perdite di persone care, guerre, crisi economiche, fasi dell'evoluzione sessuale, ecc.) ma si tratta comunque di situazioni che non inficiano più di tanto la possibilità che abbiamo di superarle, in virtù della nostra superiore civiltà. Da qui la necessità, per le società primitive, di approntare delle tecniche di rafforzamento della presenza di fronte a queste possibilità di crisi: da questa esigenza nasce la vita religiosa. La religione consente di superare la crisi vivendola secondo un modello istituzionalizzato, metastorico (il mito religioso). Il divenire storico viene in tal modo mascherato e vissuto fuori dalla storia. Ciò che permette appunto di superare la crisi e di riprendere le normali attività della vita. A titolo d'esempio si pensi al mito di Cristo risorto, offerto al fedele come modello di superamento della crisi del lutto.] [pp. 36-42]



La crisi procurata dalla perdita di una persona cara

[La sofferenza provocata dalla morte di una persona cara può condurre a una] crisi irrisolvente, nella quale si patisce il rischio del progressivo restringersi di tutti i possibili orizzonti formali della presenza.

La crisi del cordoglio, come si è detto, appartiene alla condizione umana: tuttavia la civiltà moderna l'ha di molto ridotta di intensità e di pericolosità, fornendole il soccorso di tutta l'energia morale maturata nel vario operare civile, e - per i credenti - contenendola e lenendola mercé la prospettiva delle consolanti persuasioni della religione cristiana. Nel mondo antico (per tacere naturalmente delle civiltà primitive) la crisi del cordoglio assume invece ordinariamente, sia nell'individuo che nella collettività, modi estremi che hanno riscontro nella nostra civiltà solo in casi individuali eccezionali e palesemente morbosi, e più diffusamente appena in quelle poche aree folkloriche che per certi aspetti riproducono ancora condizioni di esistenza in qualche modo simili a quelle del mondo antico. Così ove prescindiamo dalla risoluzione poetica di Omero, la crisi di Achille per la morte di Patroclo si manifesta in modi «eccessivi» che noi oggi non saremmo disposti a concedere a un uomo «normale», e che possiamo al più tollerare con varia disposizione d'animo nelle contadine dell'Italia meridionale o della penisola balcanica. Tuttavia noi qui dobbiamo analizzare proprio i modi «eccessivi» della crisi del cordoglio, cioè il rischio che essa comporta quando tocca per così dire il fondo.

[La crisi "eccessiva" del cordoglio può manifestarsi in diversi modi. Come assenza totale di fronte all'evento luttuoso, cioè come perdita dei sensi. Ma anche come] ebetudine stuporosa, senza parola e senza gesto, e senza anamnesi della situazione luttuosa: uno stato simile, designato dal comune linguaggio con la espressione «impietrito (o folgorato o raggelato) dal dolore» [...] Si tratta però di una calma inautentica, funesta e minacciosa, e di una instabile smemoratezza, che da un momento all'altro può rompersi in un planctus irrelativo, cioè in un comportamento orientato ad arrecare offese anche mortali alla propria integrità fisica. [...] Appena un po' al di qua di questa irrisolvente polarità di ebetudine e di planctus sta la sgomenta coscienza di essere immerso in tale polarità e di non poterla padroneggiare.

[Tra i vari sintomi della crisi del cordoglio ci sono quelli che derivano dal tentativo non riuscito di trascendimento nell'ethos e che sfociano invece in un conato meramente vitalistico: il furore, la fame, la libidine. I quali si possono manifestare come aggressività contro il cadavere, oppure nel bisogno di "vendicare il morto" con nuove uccisioni, nel furore distruttivo indiscriminato, nella necrofagia e nella fame insaziabile, nella necrofilia]

[Altri sintomi di crisi hanno per oggetto il cadavere, il quale appare come una «estraneità radicale», una forza «ostile», un oggetto di «contagio», un revenant, qualcosa dotato di ambivalenza, che attrae e repelle al tempo stesso, o che «attira a sé i vivi»]

[La crisi può ancora manifestarsi come delirio di negazione dell'evento luttuoso]: senza compiere il necessario lavoro di interiorizzazione del morto e di trascendimento dell'evento luttuoso la presenza malata cerca di instaurare un comportamento come se il morto fosse ancora in vita [...] [Tutta questa varia fenomenologia della presenza in crisi a causa del cordoglio De Martino la ricava sia da esempi della letteratura antica e medievale, sia dai casi clinici riportati da autori come Janet e altri] [pp. 42-48]


Le tecniche di trasformazione degli impulsi pericolosi del cordoglio in forme rituali ridischiudenti al valore

[L'istituto culturale dei riti funebri, di cui il lamento è solo un aspetto, ha come finalità di incanalare questi impulsi irrelati e pericolosi verso una forma culturale che ridischiude l'agire umano al valore etico. Schematicamente avremo dunque le seguenti trasformazioni:

Furore → Vendetta, sacrifici, agonismo (i giochi di abilità descritti a proposito del funerale del contadino romeno analizzato da De Martino, ma anche quelli descritti da Omero in occasione dei funerali di Patroclo).
Erotismo → Giochi lascivi, esibizioni oscene (anche in q. caso esempi tratti dalla mitologia e dal folklore romeno).
Bulimia, necrofagia → Banchetto funebreE così via per altri elementi rituali, i quali hanno tutti come scopo di incanalare le manifestazioni irrelate e pericolose del cordoglio in forme culturalmente accettabili, ridischiudenti al valore. Simbolo di questa trasformazione è "lo scudo di Achille", l'episodio omerico su cui De Martino si sofferma nell'ultimo paragrafo del cap. V. ] 

Tra i pezzi dell'armatura che Efesto appresta per Achille ve ne è uno, lo scudo, su cui si è particolarmente esercitata l'arte del fabbro divino. Si tratta di una grandiosa raffigurazione dell'ordine naturale e culturale circoscritto da Oceano. La prima scena, al centro dello scudo, raffigura l'ordine della natura, la terra il mare il cielo, e nel cielo il sole che mai si stanca di compiere il suo giro, e la luna piena, e le Pleiadi, le Iadi, e la potenza di Orione e l'Orsa che mai non tramonta: cioè il cosmo come stabile permanenza o come eterno ritorno. Le scene successive, dal centro alla periferia dello scudo, sono destinate all'ordine culturale in quanto misurato intervento umano: innanzi tutto l'ordine cittadino del matrimonio e della giustizia, la guerra e le sue astuzie, e poi l'ordine agricolo dei campi coltivati nei momenti decisivi dell'aratura, della mietitura e della vendemmia, la domesticazione degli animali e la caccia alle fiere che minacciano gli armenti, e infine un luogo di ristoro e di riposo in un accogliente scenario pastorale ed il ritmo di una danza eseguita da giovinetti e da giovinette nel quadro di una festa. Tutte queste scene inondate di luce e governate dalla misura della vita e dell'opera appaiono infine circoscritte dalla corrente Oceano, che accompagnando il giro estremo dello scudo segna simbolicamente il confine del regno delle tenebre e delle ombre, il misterioso accesso al regno dei morti.

[...]

La figurazione mitica che Achille contempla [è la madre Teti a porgere all'eroe lo scudo e le armi] evoca dunque in adatte immagini di ripresa il compito di superamento della crisi, la meta della riconquista dei valori, il mondo della cultura intercalato fra l'ordine naturale e la corrente Oceano. Qui viene esibito alla vista uno scenario che scioglie Achille dallo sterile abbraccio col cadavere di Patroclo [...] [identica, dunque, la funzione dei riti funebri nell'interpretazione demartiniana]. Contemplando quest'ordine essenzialmente laico dell'opera civile Achille rompe la irrisolvenza della crisi e si avvia alla reintegrazione: tuttavia affinché il piano di reintegrazione dischiusosi ai suoi occhi sia poi effettivamente attuato, Achille dovrà percorrere per intero le vie degli obblighi rituali, dalla vendetta al sacrificio, dagli agoni al banchetto, compiendo in tal modo quanto è tecnicamente necessario per l'effettiva risoluzione della crisi, cioè l'allontanamento nell'Ade di Patroclo morto e al tempo stesso la riappropriazione dell'amico nell'ethos di una benefica memoria interiore e nella riconquista del diritto dei vivi. In quest'ordine rituale dominato dall'orizzonte mitico del cadavere vivente da avviare verso il mondo dei morti e da risolvere in valore per i vivi trova posto anche la ritualizzazione del planctus e la lamentazione funebre.
[pp. 200-213]


Morte e resurrezione del nume legati al ciclo vegetale

[A partire dal cap. 6 del libro, De Martino porta la sua analisi sul rapporto tra i cicli agrari e i miti di morte e resurrezione del nume legato a tali cicli. Dato che si tratta di un argomento molto trattato anche da altri autori, riporto qui di seguito solo alcuni passi salienti]

[...] le civiltà agricole del mondo antico plasmarono la loro esperienza religiosa della morte innanzi tutto e fondamentalmente nell'ambito dei valori dell'anno agricolo, e in particolare nell'ambito del momento critico del raccogliere come mietere e come vendemmiare: qui infatti insorgeva con particolare acutezza il conflitto fra la potenza reale della morte naturale e la potenza reale della regola umana della morte. A protezione tecnica del ciclo dei lavori agricoli, e del loro epilogo nel raccolto, fu istituita una duplice destorificazione: in primo luogo la storicità del raccogliere fu occultata in una passione vegetale di cui altri sul piano mitico portavano la colpa, non gli uomini; ed in secondo luogo la storicità del vuoto vegetale fu attenuata o addirittura resa apparente mediante una reintegrazione già avvenuta in illo tempore, mediante la iterazione rituale della mitica vicenda delle origini. Così Osiride ucciso da Set era reintegrato da Oro; Adone sbranato da un cinghiale risorge; la regalità di Ba'al usurpata da Mot ritorna a Ba'al dopo la vendetta che 'Anat esercita su Mot; Kore rapita da Hades è restituita alla madre Demetra. Questo nesso mitico-rituale di destorificazione dello scomparire della vegetazione e dei vari incidenti storici a cui è esposto l'anno agricolo diventò nel mondo antico il grande centro di riplasmazione di altre sfere del  morire, e innanzi tutto di quella in cui il vuoto della scomparsa denunziava nel modo più perentorio la irrevocabilità del passare, cioè la sfera del morire delle persone storiche. Questa modalità della morte era esposta più di tutte le altre al «non c'è nulla da fare» della crisi, ed era pertanto più di tutte bisognosa di protezione: ciò avvenne nel mondo antico, come abbiamo visto, mediante tecniche mitico-rituali quali il passaggio del morto dalla condizione di «cadavere vivente» a quella di morto nel regno dei morti, o la ritualizzazione del planctus nel lamento funebre, o del furore nell'agonismo, o dell'erotismo nelle esibizioni oscene e nei giuochi lascivi, o della sitofobia nei digiuni e nelle astinenze rituali, o della bulimia nei banchetti funebri. Ma avvenne anche mediante una risoluzione più radicale e cioè con la integrazione della morte individuale col suo scomparire senza ritorno nel sistema di destorificazione mitico-rituale che era stato costruito per attenuare o cancellare la storica realtà dello scomparire vegetale. Si stabilì così un organico rapporto fra rituali funerari e rituali agrari: non soltanto sia negli uni che negli altri ritroviamo lamentazioni e digiuni, purificazioni e sacrifici, agoni ed erotismo, orgiasmo e allegria e banchetti, ma il cerimoniale funebre si colmava di simboli vegetali  e il cerimoniale agrario racchiudeva bene spesso una valenza di festa dei morti. [...]

Ma la destorificazione del vuoto vegetale mediante il sistema mitico-rituale del nume che scompare e ritorna fu il centro di riplasmazione culturale anche di un'altra sfera del morire, che acquistò particolare importanza con lo sviluppo delle gandi monarchie: l'invecchiamento e la morte del re. In rapporto stretto con la stabilità e la continuità del potere politico, cioè con il mantenersi di un'autorità esposta agli incidenti della storia e alle insidie del tempo, e soprattutto alla crisi connessa con la morte del re e con  le rivalità per la successione, si fanno valere qui altri momenti critici del regime di esistenza delle antiche monarchie: appare pertanto del tutto naturale che anche quel manifestarsi del tempo e della morte che trova la sua più acuta espressione nello scandalo del trono vuoto fosse nel mondo antico sottoposto ad una protezione destorificatrice mediante la integrazione del sistema mitico-rituale del nume vegetale che scompare e che torna. [...]

[...] ogni rito agrario destinato alla scomparsa e al ritorno del nume della vegetazione racchiudeva in sé una tendenza elettiva a diventare anche una vera e propria festa dei morti. Le cerimonie destinate alla morte e al ritorno del nume della vegetazione erano altrettante occasioni per trattare anche i trapassi senza ritorno delle persone storiche: i morti vi tornavano anch'essi, ma per entro la protezione di una vicenda metastorica che li integrava in un destino divino che in illo tempore aveva reintegrato il morire del nume. [pp. 262-270]

[...]

Così una lamentatrice lucana di Valsinni riassunse con inconsapevole esattezza un aspetto non del tutto irrilevante di quel complesso di problemi sociali, politici e culturali che va sotto il nome di questione meridionale quando ci disse che nel suo paese vi erano due modi di patire la morte, quello dei signori che piangono soltanto in cuor loro, e quello dei «cafoni» che si abbandonano al lamento rituale.

La verità è che l'ampiezza della crisi davanti al cordoglio è il riflesso di una fondamentale precarietà esistenziale per cui la presenza dispone di una povera memoria retrospettiva e di una angusta coscienza prospettica di comportamenti culturalmente efficaci. L'ethos della presenza non è una grazia che scende dall'alto (anche se così può apparire ai singoli individui nei momenti in cui si innalza improvvisa la loro iniziativa risolutrice), ma sta salda nella misura in cui si viene realizzando nel viver civile, e in un mondo in cui l'uomo è uomo per l'uomo. Quando questa realizzazione è angusta la realtà della presenza è labile, e quando si accumula soltanto la memoria dei propri scacchi e si ha esperienza soltanto della irrazionalità delle forze naturali e della schiacciante oppressività delle forze sociali, ogni momento critico in cui si manifesta un passare ostile all'uomo può, nella carenza di forze culturali da mobilitare, scatenare la crisi. Le plebi rustiche, e particolarmente le donne, delle comunità agricole in cui vigono ancora rapporti precapitalistici e semifeudali sono appunto in queste condizioni: ecco perché la crisi del cordoglio assume in loro forme così estreme, bisognose di essere adeguatamente fronteggiate, ed ecco perché vi si mantengono le tecniche di lamentazione; un'opera di incivilimento che si mantenga esclusivamente sul piano della predicazione religiosa o «morale» è pertanto destinata ad avere qui una efficacia limitata. [p. 319]



Ernesto De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, Bollati Boringhieri, 2011 (ed. or. 1958).

Commenti