Come i modelli estetici espressero la crisi del mondo antico

Una formula divenuta celebre, coniata dall'archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli, definisce lo stile di questi decenni come manifestazione del dolore di vivere: «se guardiamo alla scultura del III secolo (...) restiamo colpiti particolarmente dal fatto che i volti assumono un'espressione di dolore e che la forma artistica ellenistica si è modificata (...). Si tratta di qualcosa di nuovo: non dolore fisico, ma angoscia morale» (La fine dell'arte antica, Milano 1971). Mai come in questo periodo l'inquietudine e il dubbio trovano espressione nelle immagini ufficiali: il ritratto dell'imperatore Decio (249-251), per esempio, è così eloquente da rendere superfluo ogni commento. Non è un fatto di moda o di gusto; è l'idea universalmente condivisa di vivere in un mondo in cui è impossibile essere felici.  Un mondo invecchiato, esausto, in cui «le primavere non si ammantano più al soffio di miti brezze, né gli uomini si caricano più di feconda maturità», come sconsolatamente scrive il letteratissimo Cipriano, vescovo di Cartagine (A Demetriano, 3). Un mondo dal quale è meglio allontanarsi, rifugiandosi nelle più o meno fragili filosofie consolatorie (come lo stoicismo, che cercava di rispondere al problema dell'esistenza in termini di rivelazione interiore), nelle religioni misteriche per lo più di origine orientale (mitraismo, orfismo volgare, culti solari), nella fede cristiana, sempre più diffusa.

Ritratto di Decio, marmo, Roma, Musei Capitolini
Per respingere questi sentimenti, il linguaggio del passato appare drammaticamente inadeguato. La somiglianza al vero e la ricerca del bello sono sostituite dalla volontà di esprimere la spiritualità, la riflessione, la sofferenza. I mezzi della mutata sensibilità artistica sono l'ingrandimento degli occhi, l'accurata incisione dell'iride e della pupilla per definire lo sguardo, rivolto a un'indefinita lontananza; l'esasperazione dei segni d'espressione (rughe, pieghe, occhiaie), l'accentuazione degli elementi coloristici nei capelli e nelle barbe attraverso l'uso, sempre più massiccio, di uno strumento che segna in profondità il  marmo, detto trapano corrente. Una ricerca che si spinge al punto di stravolgere l'anatomia e di rinunciare alla coerenza dell'insieme, consapevolmente accettando il brutto e la disarmonia come elementi di espressione dell'essere uomini; una volontà d'arte antinaturalistica, per la quale si è chiamato in causa, per analogia, l'Espressionismo europeo degli anni trenta del Novecento, che manifesterà l'orrore per il totalitarismo e tutto il disagio dei contemporanei deformando il mondo, gli uomini e le cose in modo grottesco. È la prima, vera, profonda frattura nella storia dell'arte antica: è appunto in questo processo di superamento della tradizione ellenistica che germogliano i principi costitutivi dell'estetica medievale [p. 263-64]

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Un nuovo linguaggio artistico

Nel IV secolo si afferma un linguaggio figurativo che aveva cominciato a delinearsi circa cent'anni prima, intorno al 200 d. C., ed è chiamato dagli specialisti tardo-romano: una definizione ambigua, forse impropria, se solo si pensa a quanto poco di veramente romano vi sia nella produzione artistica dello sterminato impero del III secolo d. C.; e tuttavia usata per contrapporre idealmente le novità dell'era tetrarchica e costantiniana allo stile classicheggiante che aveva dominato in varie forme, più o meno pure, fino all'inizio del III secolo. È un linguaggio aspro, privo di finezze illusionistiche, tecnicamente impoverito rispetto a quello dei secoli precedenti, ma insieme portatore di una tragica, dirompente intensità emotiva che l'arte classica aveva raggiunto solo in alcune manifestazioni di gusto popolare.
L'imperatore Eraclio, statua colossale in bronzo, 370-450 d.C.,
Barletta, Piazza San Sepolcro.
Per gli artisti tardoantichi l'armonia delle forme e la capacità di ingannare i sensi dello spettatore sono canoni ormai privi di importanza; ed essi vi rinunciano a favore di altri strumenti espressivi, che possono sembrare rozzi o primitivi, ma sono gli esiti visibili di una sensibilità diversa, più elementare e istintiva: rigorosa e astratta frontalità, gestualità iconica, stridenti contrasti chiaroscurali, convenzionalità densa di significati simbolici. Nel IV secolo l'immagine ha di solito un forte contenuto ideologico: il potere dell'imperatore, l'autorità dei funzionari, la saldezza dello stato, la superiorità dei romani sui barbari, il rispetto delle gerarchie sociali. [p. 302]

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L'indifferenza per la natura

[...] La stessa mancanza di naturalismo caratterizza in modo assai vistoso il ritratto, specialmente quello ufficiale. I volti dei sovrani e dei funzionari del IV e del V secolo perdono la salda struttura organica del passato, il loro aspetto è ieratico, quasi impersonale, l'espressione è dura e sprezzante, come a voler significare che essi tengono in scarsa considerazione il mondo terreno al quale pure appartengono.

Decadenza o primitivismo?

Per quanto lontano dal gusto classico, il linguaggio della tarda romanità non può essere descritto unicamente in termini di decadenza o imbarbarimento. L'esperienza dell'arte contemporanea insegna che il rifiuto del bello canonico e la preferenza per un linguaggio rude e simbolico possono essere scelte deliberate, con un preciso valore programmatico; e questo in genere accade nelle epoche la cui cultura è attraversata da forti impeti irrazionalistici. Uno studioso di arte bizantina, Ernst Kitzinger, ha paragonato lo stile del IV secolo d.C. a quello delle Avanguardie del primo Novecento, quando artisti come Gauguin e Picasso o, in altre forme, Kandinskij e Matisse rinunciano allo stile classico-rinascimentale dei secoli precedenti per cercare nell'arte dell'Africa, dell'America precolombiana e della Polinesia i modelli di un codice espressivo più efficace.

Senza dimenticare la parte del caso o l'evidente diminuzione della capacità tecnica, è in questa prospettiva anticlassica che dobbiamo sforzarci di guardare all'arte della tarda antichità: anch'essa implica più spesso una polemica rinuncia ai valori del passato e sacrifica l'imitazione di  un mondo ormai assai poco attraente alla rappresentazione chiara di ciò che veramente conta agli occhi dei contemporanei, la gloria, la potenza, la gerarchia. [p.303]


G. Bora - G. Fiaccadori - A. Negri - A. Nova, I luoghi dell'arte. Storia e percorsi. 1. Dalle origini all'età cristiana, Electa - B. Mondadori, 2002.

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