Quando Pavese iniziò a frequentare i bordelli

Nella lettera datata agosto 1926 che Cesare Pavese diciottenne indirizza al suo ex professore di liceo Augusto Monti, il brillante allievo fa un accenno che a noi pare un po’ criptico, se non intervenisse una benevola nota esplicativa a chiarircene il senso: «Sono giunto a frequentare quei tali posti raccomandati da Catone e, non faccio per dire, ma la lotta è stata dura: l’ho vinta e tutta una parte nuova di mondo mi si è rivelata»1. Quei posti a cui Pavese allude sono i bordelli. Ma come mai un giovane allievo si permette con un professore una simile confidenza “da uomo a uomo”? Per capire meglio dobbiamo rievocare qualcosa di morto e sepolto: la morale sessuale di quei tempi. Questa si basava su due assunti indiscutibili: le ragazze (soprattutto se di buona famiglia) dovevano arrivare vergini al matrimonio; i ragazzi, no. I ragazzi dovevano arrivarci già con delle esperienze alle spalle. Ora, questi due assunti avevano entrambi delle conseguenze. Le ragazze dovevano essere preservate dalle tentazioni dell’”età pericolosa”, tenute segregate in educandati e conventi o comunque sotto lo stretto controllo della famiglia fino al momento in cui, raggiunta l’età matrimoniale (che a quei tempi era più bassa, molto più bassa di oggi), sarebbero state per così dire “messe sul mercato”. La donna era merce che doveva essere consegnata intatta al marito. Un buon matrimonio, infatti, presupponeva la verginità della sposa. Se questa non era stata preservata, ci si doveva accontentare di matrimoni di ripiego, di scarso prestigio, o addirittura di nessun matrimonio, che per quei tempi era un po’ come una morte civile per le donne. Figurarsi poi se la ragazza commetteva l’errore di rimanere incinta: apriti cielo! Una ragazza madre di quei tempi era una reietta della società e suo figlio veniva chiamato impietosamente “il figlio della colpa”.


Che succedeva invece ai maschi? Se la verginità era per le ragazze un dovere, per i ragazzi nell’”età pericolosa” il dovere era quello di non indulgere nella masturbazione. Si riteneva, infatti, che questa snervasse l’organismo e portasse a gravi conseguenze, tra cui l’impotenza e l’impossibilità di avere figli. Veniva combattuta aspramente: tutto fuorché la masturbazione! Durante il fascismo il duce stesso nelle sue veline ai direttori dei giornali criticava duramente tutte quelle vignette e pubblicità che apparivano sui quotidiani e che potevano eccitare i giovani e “snervarli”2. Stranamente però, se la masturbazione era un tabù, non lo erano invece i rapporti prematrimoniali, che, come dicevamo sopra, dovevano avvenire come necessarie esperienze preparatorie al sesso nel matrimonio. Ma se le ragazze perbene erano escluse da queste possibili esperienze, dove dovevano rivolgersi i giovani per il necessario training sessuale? C’erano tre possibilità, tutte e tre molto sfruttate. La prima – ma questa riguardava soprattutto i rampolli delle classi elevate – erano i cosiddetti “amori ancillari”, ovvero tresche con le servette, le sartine, le lavandaie, le bambinaie, e insomma tutta quell’umanità femminile delle classi subalterne che per il lavoro che svolgeva era a più stretto contatto con le classi elevate. Poteva addirittura succedere che fosse la madre stessa a procurarsi della servitù femminile ad hoc per dare modo al rampollo di casa di fare le sue esperienze. Un’altra risorsa, forse la più sfruttata in assoluto, era il bordello. Ce n’erano per tutte le esigenze e per tutte le classi sociali. I bordelli erano il necessario contraltare all’indisponibilità delle donne “oneste” a concedersi prima del matrimonio: le due cose erano strettamente legate. Beninteso, non che tutte le ragazze arrivassero intatte al matrimonio: non sempre avveniva, soprattutto nelle classi meno abbienti, ma il bordello era appunto giustificato dalla necessità di contenere in qualche modo gli ardori giovanili dei maschi, senza costringerli all’aborrita masturbazione e senza che fosse minacciata la virtù delle signorine perbene. Il bordello com’ebbe a dire Montanelli quando ne fu decretata l’abolizione, era una specie di istituzione, un caposaldo del Paese: «Un colpo di piccone alle case chiuse fa crollare l’intero edificio, basato su tre fondamentali puntelli: la Fede Cattolica, la Patria e la Famiglia. Perché era nei cosiddetti postriboli che queste tre grandi istituzioni trovavano la più sicura garanzia »3. La terza risorsa che i giovani in cerca di esperienze potevano sfruttare erano le famose “navi scuola”. Si trattava quasi sempre di donne piuttosto emancipate, con appetiti sessuali fuori dalla norma e la vocazione per l’”istruzione” dei giovani. A volte erano vedove, a volte donne separate, sicuramente indifferenti o poco curanti delle chiacchiere4. Ivan Graziani ha dedicato qualche decennio fa una bella canzone alla sua “nave scuola”, la “Signora bionda dei ciliegi”.


Che ne è di tutto ciò oggi? La rivoluzione sessuale degli anni ‘60, arrivata in Italia con l’avvio dell’era del consumismo di massa ha mandato in soffitta quella morale un po’ ipocrita. Se ancora nel 1966 in un film come “La Cina è vicina” di Bellocchio si poteva ascoltare una battuta di questo tenore: «Smettila di darla a tutti, altrimenti finisce che nessuno ti sposa!», oggi una simile affermazione suonerebbe assolutamente anacronistica. La verginità, da fiore della virtù è diventata qualcosa di ingombrante da cui sbarazzarsi “entro tempi ragionevoli”; e quando quei tempi vengono sforati, la ragazza che non è ancora riuscita a perderla – posto che ciò non sia per convinzioni religiose – entra in crisi, si deprime, si dispera. C’è qualcosa come la verginità che in pochi decenni ha subito un così radicale mutamento di valore? Sì, la masturbazione! Da pratica infame, insalubre, assolutamente da reprimere, perlomeno nei maschi, di cui si diceva minacciasse la virilità, la masturbazione si è trasformata in qualcosa di positivo, salutare e decisamente consigliabile tanto ai maschi quanto alle femmine per conoscere il proprio corpo, per rilassarsi e come valvola di sfogo al desiderio sessuale. Siamo proprio su un altro mondo rispetto ai tempi del giovane Pavese!


Roberto B.


1.    Cesare Pavese, Lettere 1926-1950 *, Torino, Einaudi 1968, p. 8.

2.   “A proposito di quanto ho detto circa le donne seminude, accade che queste donne seminude attraggano specialmente l’attenzione degli adolescenti che ne traggono motivo per le solite e note masturbazioni. Questi giovani arrivano poi ai Reggimenti sfibrati e tutto ciò, specialmente in tempo di guerra, non giova alla razza…”. Nota di B. Mussolini, conservata all’Archivio Centrale dello Stato, Ministero della Cultura Popolare, busta 75, 30 gennaio 1941. Citata da Maurizio Cesari in La censura nel periodo fascista, Napoli, Liguori 1978, p. 85.

3.   Di questa perorazione montanelliana tra il serio e il faceto vale la pena citarne qualche altra riga che traggo dal bel libro di Guido Vergani: Giovanotti in camera. Due secoli di marchette, Milano, Baldini&Castoldi 1995, il quale cita il Montanelli di Addio Wanda, Milano, Longanesi 1956. «Lei mi dirà che son barbare usanze. E siamo d’accordo. Ma la famiglia, la famiglia all’italiana, funziona solo finché le figlie sono vergini, cioè finché hanno davanti agli occhi lo spauracchio del lupanare, in caso di “deviazione”. Il giorno in cui a esse si conceda di “vivere la loro vita” senza timor di finire in quei serragli, l’Italia è destinata a diventare uno dei tanti paesi di moralità e di costumi protestanti, dove la condizione di “vergine” non esiste, come non esiste quella di “puttana”, tutte le donne essendo accomunate in un limbo intermedio; e dove non esiste più la famiglia, le sue mansioni essendo assorbite dalla “società”. Ma in Italia la “società”, secondo Lei, dov’è? Io in questo paese vedo soltanto famiglie, in cui le lenzuola erano (in genere) pulite, ma solo perché i maschi potevano sporcare quelle dei bordelli, dove d’altronde imparavano a fare l’amore senza complessi e timidezze, i bordelli essendo le uniche istituzioni italiane in cui la Tecnica venisse rispettata e la Competenza riconosciuta. E se mi tolgono le famiglie prima che una “società” possa prenderne il posto, che succede? E con la famiglia, andrebbe a gambe all’aria la Fede. Sì, Signora, la Fede. Per la semplice ragione che non c’è Dio senza Diavolo, e la prostituzione è il migliore di tutti i diavoli, è proprio un buon diavolaccio all’italiana […] E, infine, la Patria. Gli Stati Uniti e l’Onu, questo Esercito italiano, che senza Patria, Lei lo capisce, non può esistere, lo vogliono o non lo vogliono? Se lo vogliono, non s’illudano che basti armarlo di cannoni e di mortai, per farlo, bene o male, funzionare. Eh no, bisogna soprattutto equipaggiarlo di casini. Se i nostri soldati vanno avanti a furia di calorie, quelli italiani vanno avanti a furia di puttane. Lei ignora di che cosa sia capace un bersagliere, quando sa che, se riesce a espugnare la trincea nemica, la Wanda di turno gli permetterà di bruciare il paglione. Perché Wanda glielo permette. Wanda odia gli obiettori di coscienza, gli imboscati dei “servizi sedentari” e della “vasellina”. Wanda è patriota»

4.   Luigi Meneghello in Libera nos a Malo, Milano, BUR, 2007 (ed. or. 1963), pp. 176-77, ci offre questo boccaccesco ricordo di quanto avveniva a Malo, nel vicentino, negli anni della sua adolescenza: «Che bravo bambino ha la signora Placida! Cresciuto tra le donne, ben pettinato, bravino a scuola, dice la signora che è proprio tanto contenta di lui. Una vita regolare, casa e scuola, e chiesa alla domenica s’intende; fa i suoi compiti con diligenza, bisogna quasi incoraggiarlo perché vada fuori ogni tanto, a distrarsi un po’. Dopo tutto non ha ancora tredici anni.

     Sa distrarsi però; viene in piazza, si compra le caramelle da Felice, poi va dalla signora Viola – questo però non lo racconta alla mamma – e si congiunge carnalmente con lei per una mezz’oretta prima di cena.

     La signora Viola, giovane ancora e separata dal marito, s’è presa in cura quasi una dozzina di nostri piccoli compaesani, tra gli undici anni e i quattordici, a cui insegna l’amore. Non è un banale corso accelerato di copulazione, ma una vera scuola che promuove rapporti di affetto e di rispetto tra insegnante e allievi. Ci sono, si capisce, allievi più e meno bravi, gli sgobboni, i distratti, i ripetenti; ma per quel che si può giudicare la scuola funziona. È incredibile quanto si può ottenere dai bambini assecondandone le inclinazioni spontanee.

      I piccoli mariti in calzoncini corti giocano sul selciato della piazza, in attesa del turno. Quando uno esce, pallido, radioso, l’altro s’accosta alla porta, chiede garbatamente “conpermesso?”. Ha appena finito di leccare il gelato da trenta, ha gli occhi lucidi, e le brachette già inturgidite.

     O tre volte, anche quattro volte beati! Come noi andavamo a rubare le pere nel brolo del prete, e restavamo talvolta aggrappati con le braccia e le gambe a metà dell’albero, prossimi ai frutti, distratti dalla bizzarria di un’angolazione inconsueta del paesaggio di tra le fronde; così ma in modo quanto più struggente, il piccolo ospite montato sulla signora Viola sosta forse là in mezzo rannicchiando le gambe come un ranocchio».

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