L'idea della gerarchia sociale presso i giapponesi

Il Giappone nonostante  la sua recente occidentaliz­zazione rimane tuttora una società aristocratica. Ogni saluto, ogni forma di contatto umano, deve indicare con precisione la diversa posizione sociale occupata dai singoli individui. Ogni volta che un Giapponese si ri­volge ad un altro dicendogli di mangiare o di sedere usa parole diverse a seconda che si rivolga a qualcuno in termini di familiarità, o parli invece ad un superiore o ad un inferiore: a seconda dei casi variano le forme personali e mutano anche le radici verbali. In altri ter­mini i Giapponesi possiedono, come molti altri popoli del Pacifico, quella che viene definita una «lingua del rispetto», cui si accompagnano appositi inchini ed ingi­nocchiamenti. Tutto ciò è regolato meticolosamente da una serie di norme e di abitudini, per cui, ad esempio, non basta soltanto sapere a chi ci si deve inchinare, ma occorre sapere anche quanto ci si deve inchinare; infatti un tipo di inchino che va bene per un certo ospite, potrebbe essere preso come un insulto da un altro che si trovi, rispetto a chi si inchina, in una posizione so­ciale leggermente diversa. Le forme dell'inchino hanno quindi una vasta gamma che va dall'inginocchiarsi abbassando la fronte fino a toccare il dorso delle mani poste con le palme aperte sul pavimento alla semplice inclinazione del capo e delle spalle; occorre quindi imparare, e imparare presto, come adattare quest'atto di omaggio alle diverse situazioni.

Nel regolare il proprio comportamento non bisogna soltanto tener sempre conto delle differenze sociali, ben­ché queste siano assai importanti, ma occorre far riferimento al sesso, all'età, ai legami familiari, ai prece­denti rapporti intercorsi fra le due persone in questio­ne; anche persino fra due stesse persone è necessaria una diversa gradazione delle forme di rispetto a secon­da delle circostanze. Ad esempio un civile può essere in rapporti di familiarità con un altro civile e non essere assolutamente tenuto all'inchino, ma quando uno dei due indossa un'uniforme militare, l'amico in abiti civili dovrà inchinarglisi. La corretta osservanza della gerarchia è un'arte che richiede la valutazione di in­numerevoli fattori, alcuni dei quali in certi casi posso­no compensarsi a vicenda, mentre in certi altri possono sommarsi.

Vi sono ovviamente gruppi di persone tra le quali l'uso di formalità è relativamente limitato: negli Stati Uniti uno di questi gruppi è costituito dai componenti il nucleo familiare; e, in effetti, quando arriviamo a ca­sa, in seno alla famiglia, noi siamo abituati a trascu­rare anche le più elementari regole della nostra eti­chetta. Al contrario in Giappone è proprio all'interno della famiglia che si imparano e si osservano meticolosamente le regole del rispetto. Una madre giapponese, quando ancora porta il proprio bambino legato sulla schiena, comincia a fargli fare l'inchino, spingendogli in giù la testa con la mano, e i primi insegnamenti che il piccino riceve sono quelli relativi alle forme di ri­spetto che egli deve usare verso il padre o il fratello maggiore. La moglie si inchina di fronte al marito, il  figlio di fronte al padre, i fratelli minori di fronte ai fratelli maggiori, la sorella si inchina di fronte a tutti i fratelli di qualsiasi età. E non si tratta di un atto sen­za significato; esso indica che chi si inchina riconosce all'altro il diritto di imporre la propria volontà in que­stioni che forse preferirebbe sbrigare da solo, e chi ri­ceve l'inchino riconosce a sua volta certe responsabi­lità inerenti alla sua posizione: L'ordine gerarchico fon­dato sul sesso, sull'età e sulla primogenitura costitui­sce dunque un aspetto essenziale della vita familiare giapponese. 

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La società feudale giapponese appariva come l'insie­me di un complicato sistema di stratificazioni sociali, all'interno del quale lo status di ogni individuo era determinato in base al criterio dell'ereditarietà. I Toku­gawa consolidarono questo sistema e regolarono i det­tagli della vita quotidiana di ogni gruppo castale. Ogni capo famiglia doveva esporre all'entrata della propria ca­sa l'indicazione della classe sociale cui apparteneva e i dati circa la sua posizione ereditizia; in base al rango ereditario venivano quindi determinati i vestiti che po­teva indossare, i cibi che poteva comperare e il tipo di casa in cui poteva legalmente abitare. Al di sotto della Famiglia Imperiale e dei nobili di corte vi erano quat­tro gruppi castali ordinati gerarchicamente: i guerrieri (samurai), i contadini, gli artigiani e i mercanti; ancora più sotto stavano i cosiddetti «esclusi». Tra questi ultimi il gruppo più numeroso e più famoso era rappre­sentato dagli Eta, da coloro cioè che praticavano un me­stiere tabù: si trattava di spazzini, becchini adibiti al seppellimento dei giustiziati, di scorticatori di animali morti, di conciatori di pelli. Per i Giapponesi erano gli intoccabili, o meglio si dovrebbe dire gli «incontabili», dato che perfino le miglia di strada che attraversavano i loro villaggi non erano contate, come se quella parte di territorio e i suoi abitanti non esistessero affatto. Gli «esclusi» vivevano in condizioni di miseria disperate e, anche se veniva loro garantito l'esercizio delle loro attività, erano al di fuori dell'ordinamento sociale ufficiale.

I mercanti venivano subito dopo gli «esclusi». Per quanto possa sembrare strano ad un americano ciò era assolutamente coerente in una società feudale: infatti una classe di mercanti costituisce sempre un elemento disgregatore in una società di quel tipo poiché, più il mercante prospera e diviene rispettato, più il sistema risulta compromesso. Quando i Tokugawa, con la legislazione più drastica che una nazione abbia mai messo in vigore, decretarono nel diciassettesimo secolo l'isola­mento del Giappone, essi vollero appunto tarpare le ali ai commercianti. Fino allora il Giappone aveva avuto un commercio marittimo lungo tutte le coste della Cina e della Corea, mediante il quale si era inevitabilmente sviluppata una classe mercantile: i Tokugawa posero ter­mine a tutto ciò facendo della costruzione e dell'utiliz­zazione delle navi superiori ad una certa dimensione un reato punibile con la pena capitale, mentre le piccole navi di cui rimaneva lecito l'uso non erano in grado di raggiungere il continente, né di trasportare carichi com­merciali. Anche il commercio interno fu severamente li­mitato con barriere doganali ai confini di ogni feudo e con severe misure per impedire il passaggio delle merci. Altri provvedimenti legislativi furono diretti a far risaltare la bassa condizione dei mercanti: furono emanate leggi suntuarie che regolavano il tipo di vestiti che essi potevano indossare, gli ombrelli di cui potevano far uso, l'ammontare delle somme che potevano spendere per un matrimonio o per un funerale. Venne loro proibito di abitare in un distretto di samurai, i privilegiati guer­rieri contro le cui spade i mercanti non godevano di nessuna protezione legale. Questa politica dei Tokugawa, mirante a tener basso il livello sociale dei mercanti, era ovviamente destinata a fallire in un'economia moneta­ria, quale era appunto quella con cui era allora retto il Giappone; ad ogni modo il tentativo venne fatto.

Il regime dei Tokugawa comportò per la classe dei guerrieri e per quella dei contadini, che sono quelle su cui poggia la stabilità di un regime feudale, un severo irrigidimento strutturale. Già durante il periodo delle guerre civili, finalmente terminate con la vittoria di Ieya­su, Hideyoshi, il grande signore della guerra, con la sua famosa «caccia delle spade», aveva completato la sepa­razione fra queste due classi. Hideyoshi aveva disarmato i contadini e aveva conferito unicamente ai samurai il diritto di far uso della spada. Analogamente i guerrieri non potevano più essere contemporaneamente contadini, o artigiani, o mercanti; neppure il più modesto dei samurai poteva più, legalmente, avere funzioni produttive, ma doveva appartenere ad una classe parassitaria che ricavava il suo annuale stipendio in riso mediante tasse imposte ai contadini. Era però il daimyo che riceveva il riso e che lo distribuiva ai vari samurai secondo le singole spettanze; se quindi i samurai non dovevano preoccuparsi per il proprio sostentamento, diventavano però, in questo modo, completamente soggetti al proprio signore. In precedenti periodi della storia giapponese i legami fra il signore feudale e i suoi guerrieri si erano rafforzati attraverso le lotte quasi ininterrotte fra i vari feudi: ora, nel pacifico periodo dei Tokugawa i legami erano diventati di natura economica. Va tenuto presente che questi guerrieri, seguaci di un signore, a differenza di quanto avvenne nel mondo feudale europeo, non erano a loro volta signori di grado inferiore che possedessero proprie terre e avessero sotto di sé i propri servi della gleba; né sarebbe corretto considerarli come semplici soldati di ventura; essi erano piuttosto dipen­denti del signore con un preciso stipendio che era stato fissato per loro e per la loro discendenza all'inizio del periodo Tokugawa. Tale stipendio costituiva però un red­dito modesto; studiosi giapponesi hanno calcolato che, nel complesso, lo stipendio medio dei samurai non su­perava le entrate dei contadini, il che voleva dire niente di più del minimo indispensabile per la sussistenza. Da tutto ciò conseguiva che un samurai, per non gettare in gravi difficoltà economiche la propria famiglia do­veva evitare che l'iniziale stipendio assegnatogli andasse diviso fra i suoi eredi, e perciò tendeva a limitare la pro­pria discendenza. D'altra parte non vi era nulla di più irritante per un samurai, del prestigio sociale basato sulla ricchezza e sull'ostentazione e quindi nel suo codice morale venivano particolarmente esaltate le superiori virtù connesse ad una vita frugale.

Un abisso separava i samurai dalle altre tre classi: mentre i contadini, gli artigiani e i mercanti erano «gente comune» o «gente del popolo», i samurai erano qualcosa di diverso. Le spade che essi portavano, come pri­vilegio e segno distintivo della loro casta non avevano solo un significato decorativo, i samurai avevano il di­ritto di usarle contro la gente comune: questa era stata la tradizione prima dei Tokugawa e le leggi di Ieyasu non avevano fatto che ribadire le antiche consuetudini quando avevano stabilito che: «I popolani che non si comportano convenientemente con i samurai o che non mostrano rispetto per i loro superiori possono essere uccisi sul posto». Nel disegno politico di Ieyasu era esclusa ogni interdipendenza tra il popolo, e la casta dei samurai; volendo dar vita ad un ordinamento gerarchico rigido egli stabilì che entrambi questi due ordini facessero capo al daimyo e dipendessero direttamente da lui, venendo a costituire due diverse e distinte scale ge­rarchiche. All'interno di ogni scala gerarchica erano in vigore le leggi, le regole, i controlli e i doveri reciproci previsti dall'ordinamento, ma tali scale rimanevano fra di loro perfettamente distinte. La pratica della vita infran­se, naturalmente, questa separazione, operando continui collegamenti tra questi due ordini sociali, ma ciò co­munque rimase estraneo alle previsioni del sistema normativo.

Durante l'epoca dei Tokugawa i samurai non si limi­tavano a far mostra delle loro spade; ma divennero sem­pre di più gli amministratori delle terre dei loro signori specializzandosi, nel contempo, in arti pacifiche, quali il dramma classico e il cerimoniale del té. Curavano inoltre tutto lo svolgimento delle cerimonie nelle dimore dei daimyo ed erano i loro abili esecutori per ogni sorta di intrighi. Due secoli di pace sono un lungo periodo e i samurai non potevano trascorrerlo occupandosi sem­plicemente dell'arte di maneggiare la spada e allo stesso modo in cui i mercanti, nonostante le limitazioni impo­ste dalle leggi castali, erano riusciti ad organizzare la loro esistenza in modo da lasciar ampio spazio alla vita urbana, alle arti e agli svaghi, così, anche i samurai, nonostante avessero sempre la spada a portata di mano, impararono a svolgere attività pacifiche.

I contadini, nonostante la mancanza di una prote­zione giuridica di fronte alle spade dei samurai, le pe­santi tasse in riso che gravavano sulle loro spalle e tutte le limitazioni cui li sottoponeva la legge, godevano tut­tavia di certe garanzie. Soprattutto era loro garantito il possesso della terra, fatto questo che ancora oggi con­ferisce un certo prestigio in Giappone. Sotto il regime dei Tokugawa non era permessa la definitiva alienazione della terra e questa norma rappresentava una garanzia per il singolo coltivatore e non, come avvenne nell'Euro­pa feudale, per il feudatario. Il contadino infatti poteva vantare un diritto permanente su di un bene che aveva per lui un altissimo valore, e risulta, in effetti, che egli dedicasse alla sua terra la stessa diligenza e le stesse instancabili cure con cui i suoi discendenti coltivano og­gi i loro campi di riso. Ad ogni modo il contadino era pur sempre la chiave di volta su cui poggiava una classe dirigente parassitaria, composta di circa due milioni di persone, e sulle cui spalle ricadeva tutto il peso economico dell'apparato di governo dello Shogun, dell'anda­mento della ricca casa del signore e degli stipendi da passare ai samurai. Le tasse imposte al contadino erano in natura, vale a dire egli doveva al daimyo una certa percentuale del raccolto; tuttavia mentre ad esempio nel Siam, un altro paese con una grande produzione di riso, la tassa tradizionale è del 10 per cento, nel Giappone dei Tokugawa essa era fissata al 40 per cento. In realtà, però, si raggiungevano percentuali ancora più elevate. In certi feudi fino all'ottanta per cento; senza contare le corvées, cioè le richieste di lavoro non retribuito a van­taggio del signore, che incidevano pesantemente sulle forze e sul tempo dei contadini. Anch'essi, come i sa­murai, limitavano le proprie famiglie, con il risultato che la popolazione dell'intiero paese, per tutta la durata del periodo Tokugawa, rimase quasi ferma agli stessi va­lori. Trattandosi di un paese asiatico che attraversava un lungo periodo di pace, ovviamente questa stabilità demografica deve in gran parte riconnettersi al tipo di regime politico. Si trattava indubbiamente di un regime spartano, nelle sue restrizioni, sia per i seguaci del si­gnore che vivevano dei proventi delle tasse, sia per la classe dei produttori, però era un regime che, per quanto si riferisce ai rapporti tra dipendenti e superiori, for­niva una relativa sicurezza: ogni individuo conosceva i suoi obblighi, i suoi diritti e la sua condizione sociale, e, se venivano commessi degli abusi, anche il Giappo­nese meno abbiente aveva modo di far sentire la sua protesta.

Pertanto i contadini, anche nelle più disperate con­dizioni di miseria, solevano render noto il loro malcon­tento, sia presso il signore feudale, che presso l'autorità centrale dello Shogun: durante i due secoli e mezzo del periodo Tokugawa vi furono almeno un migliaio di ri­volte contadine. Esse però non erano originate dalla gra­vosità della regola tradizionale, «40 per cento al signore e 60 per cento al coltivatore», ma erano proteste con­tro le ulteriori e più pesanti tassazioni. In questi casi quando le loro condizioni di vita erano divenute intol­lerabili poteva accadere che gli agricoltori si riunissero in massa per fare grandi marce contro i loro signori; ma più normalmente essi preferivano la via della peti­zione e del giudizio presso le autorità dello Shogun. Dapprima i contadini sottoponevano allo stesso tesoriere del daimyo la petizione con cui chiedevano giustizia; se però la loro richiesta non perveniva al signore o se questi ignorava le loro lagnanze, i contadini inviavano propri rappresentanti alla capitale perché presentassero per iscritto allo Shogunato i motivi del loro scontento. Si ricordano casi famosi in cui i contadini, per assicu­rare la consegna delle loro petizioni, dovettero introdur­re lo scritto nella vettura di qualche alto ufficiale di governo, mentre questi transitava per le vie della capi­tale; tuttavia nonostante tutti i rischi cui potevano espor­si per far arrivare la petizione, i contadini poi poteva­no contare sulle indagini delle autorità dello Shogunato, il cui verdetto, quasi nel 50 per cento dei casi, risultò loro favorevole.

L'esigenza del rispetto della legge e dell'ordine non poteva però dirsi soddisfatta con il giudizio delle auto­rità dello Shogunato circa le rivendicazioni contadine: anche se tali rivendicazioni erano giuste e anche se lo Stato aveva ritenuto opportuno accoglierle, rimaneva il fatto che i capi contadini avevano trasgredito le severe norme imposte dalla struttura gerarchica dello Stato. Pertanto si prescindeva dalla eventuale decisione favo­revole, e si teneva invece conto dell'imperdonabile com­portamento di questi leaders contadini che avevano vio­lato l'essenza stessa del loro dovere di fedeltà verso il signore. Ne conseguiva la loro condanna a morte. La giustizia della loro causa diventava assolutamente irrilevante ai fini della condanna, e perfino ai contadini que­st'ultima appariva come una conseguenza inevitabile. I condannati diventavano degli eroi e il popolo accorreva in massa per assistere alle loro esecuzioni; questi capi contadini venivano immersi nell'olio bollente, o decapi­tati o crocefissi davanti ad una folla che però non in­sorgeva, riconoscendo in tutto ciò l'espressione della legge e dell'ordine. Il popolo in seguito poteva eventual­mente erigere altari ai leaders caduti e onorarli come martiri; ma ne accettava tuttavia la condanna a morte come momento essenziale di quell'ordinamento gerar­chico che regolava il mondo in cui era abituato a vivere.

 

Ruth Benedict, Il crisantemo e la spada. Modelli di cultura giapponese, Dedalo, 1968 (ed. or. ingl. 1946), pp. 57-59 e 71-78: ho omesso le note al testo e ho corretto alcuni evidenti refusi.

 

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