La concezione del suicidio in Giappone

La massima manifestazione di autoaggressione, per un Giapponese moderno, è il suicidio, che, qualora venga messo in atto rispettando tutte le regole, è in grado, secondo le convinzioni giapponesi, di cancellare il diso­nore che ha colpito una persona, riabilitandone la me­moria. A differenza degli Americani che condannano mo­ralmente il suicidio, considerandolo una forma di resa definitiva alla disperazione e allo sconforto, i Giappo­nesi ne danno una valutazione positiva, come di un atto onorevole e ragionato, considerandolo, addirittura, in alcuni casi, come il comportamento più onorevole per poter salvaguardare il giri verso il proprio «buon no­me», Il debitore insolvente che si dà la morte il gior­no di Capodanno, il funzionario che si uccide, addos­sandosi, cosi, la responsabilità di qualche casuale inci­dente, gli amanti che pongono fine a una passione senza speranza ricorrendo a una duplice morte, il cittadino che si uccide per amor di patria, in segno di protesta contro la decisione del governo di rimandare la guerra contro la Cina, l'adolescente che cerca la morte in se­guito a un insuccesso scolastico o il soldato che si uccide per non cadere in mano al nemico, sono tutti esem­pi di come la forma più estrema di violenza venga sfo­gata contro la propria persona. Alcune fonti giapponesi sostengono che questa tendenza al suicidio è un fatto nuovo per il Giappone. Darne una valutazione non è fa­cile e le statistiche mostrano come in questi ultimi anni ne sia stata spesso sopravvalutata la frequenza. In pro­porzione, nel corso degli ultimi cento anni, si sono avuti più suicidi in Danimarca e nella Germania pre-nazista che non in Giappone. Un fatto è comunque certo: il suicidio non dispiace ai Giapponesi, che lo praticano mettendoci lo stesso impegno con cui in America si com­mettono omicidi, traendone la stessa soddisfazione sostitutiva di un'altra impossibile da realizzare. Essi ma­nifestano una singolare preferenza verso gli atti di auto-distruzione piuttosto che verso quelli che distruggono gli altri, facendo dei primi, per dirla con Bacone, il proprio «caso flagrante», che risponde a un bisogno che non potrebbe essere soddisfatto da nessun'altra forma di comportamento.


Ruth Benedict, Il crisantemo e la spada. Modelli di cultura giapponese, Dedalo, 1968 (ed. or. ingl. 1946), pp. 184-185.

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