Il tarantismo salentino

[Alcuni brani da "La terra del rimorso" di Ernesto De Martino, inchiesta sul campo (estate 1959) analisi e ricognizione storica sul fenomeno del tarantismo pugliese. I titoli dei vari brani riportati, le note in asterisco e le sottolineature sono mie. Molte note al testo sono state omesse]
 
"Nella foto, scattata da Franco Pinna a Bella (Potenza) il 10 luglio 1959, sulla via del ritorno a Roma, sono riconoscibili tutti i membri dell'équipe tranne Diego Carpitella. Dall'alto in basso e da sinistra a destra si riconoscono, dopo i due bambini di Bella, Annabella Rossi, Giovanni Jervis, un notabile locale, Letizia Comba, Giuseppe De Sina - geometra di Bella, abituale informatore di de Martino -, Amalia Signorelli, Vittoria De Palma, un altro signore non ben identificato con il libro Sud e magia in mano, e infine, in primo piano, Ernesto de Martino" (E. de Martino, Etnografia del tarantismo pugliese. I materiali della spedizione nel Salento del 1959. A cura di Amalia Signorelli e Valerio Panza. Lecce, Argo, 2011, p. 56)


 
Esclusione del tarantismo come fenomeno medico. I motivi per cui il t. è da considerarsi un fenomeno culturale 
 
Immunità locale, ripetizione stagionale e calendariale, schiacciante prevalenza della partecipazione femminile, distribuzione familiare ed elettività del primo morso per l’età compresa fra l’inizio della pubertà e il termine dell’età evolutiva orientavano la ricerca verso una interpretazione simbolica del tarantismo, cioè verso una interpretazione in cui taranta, «morso», «veleno», «crisi», «cura» e «guarigione» acquistavano il significato di simboli mitico-rituali, culturalmente condizionati nel loro funzionamento e nella loro efficacia. 
 
[…] 
 
La caduta al suolo, il senso di spossatezza, l’angoscia, lo stato di agitazione psicomotoria con obnubilamento del sensorio, la difficoltà di mantenersi in piedi, il mal di stomaco, la nausea e il vomito, le varie parestesie e i dolori muscolari, l’esaltazione dell’appetito venereo figuravano nel momento della crisi del tarantismo anche nei casi – ed erano la grande maggioranza – in cui per altri segni si poteva escludere con certezza che si trattasse di latrodectismo* in atto: ne risultava un’immagine di avvelenato che poteva facilmente trarre in inganno il non-medico.

[…]

Il tarantismo come orizzonte mitico-culturale definito, cioè come morso della taranta che avvelena nella stagione del raccolto dei frutti estivi e che ogni anno torna ad agire come morso e come veleno, per essere ogni anno esorcizzato con la musica, la danza e i colori, non era «riducibile» al latrodectismo ma non era «indipendente» da esso, in quanto il latrodectismo doveva essere considerato un’importante condizione storica ed esistenziale per la genesi del tarantismo. Il simbolismo della taranta si era cioè reso autonomo, nel corso di una certa storia culturale e religiosa, dai reali episodi di latrodectismo relativamente frequenti durante i lavori agricoli estivi (forse un tempo più frequenti di quel che non siano oggi). Tale autonomia assumeva due aspetti fondamentali: o la crisi reale di latrodectismo diventava semplicemente l’occasione per evocare e configurare, per far defluire e per risolvere altre forme di «avvelenamento simbolico», e cioè i traumi, le frustrazioni, i conflitti irrisolti nelle singole biografie individuali, e tutta la varia potenza del negativo che, rivissuta nei momenti critici dell’esistenza, si traduceva in altrettanti perils of the soul (e in questo caso esauritasi la sindrome tossica restava il tarantismo, con la sua vicenda simbolica di annue ripetizioni e di corrispondenti esorcismi musicali, coreutici e cromatici); oppure, a un più alto livello di autonomia simbolica, in occasione di determinati momenti critici dell’esistenza – come la fatica del raccolto, la crisi della pubertà, la morte di qualche persona cara, un amore infelice o un matrimonio sfortunato, la condizione di dipendenza della donna, i vari conflitti familiari, la miseria, la fame, le più svariate malattie organiche – insorgeva «la crisi dell’avvelenato», utilizzando il modello del latrodectismo simbolicamente riplasmato come morso di taranta che scatena una crisi da controllare ritualmente mediante l’esorcismo della musica, della danza e dei colori (e in questo caso l’episodio iniziale era interamente simbolico, nel senso che non includeva nessun episodio di latrodectismo reale, ma un vivere, sin dall’inizio, la parte dell’avvelenato secondo il modello di avvelenamento più comune in una società agricola). Tale interpretazione unitaria si accordava con i risultati del referto medico e con quelli dell’analisi culturale, senza sacrificarne nessuno. [pp. 71-74]



L'esclusione del tarantismo come fenomeno psicopatologico

Nella prospettiva dell’analisi culturale il tarantismo non si manifestava come disordine psichico, ma come ordine simbolico culturalmente condizionato (l’esorcismo della musica, della danza e dei colori), nel quale trovava soluzione una crisi nevrotica anch’essa culturalmente modellata (il comportamento dell’avvelenato). La crisi nevrotica poteva apparire legata all’occasione di un reale episodio di latrodectismo o ad altre malattie organiche, ma ciò che costituiva il tarantismo era l’autonomia del suo simbolo che dava orizzonte a conflitti psichici irrisolti e latenti nell’inconscio. Molto più spesso la crisi cercava per così dire l’occasione approfittando magari di una situazione di «morso possibile» (raccolto dei frutti estivi, dormire nel campo etc.) o addirittura non salvava neanche questa parvenza di credibilità tanto era il suo bisogno prepotente di scatenarsi. Il dispositivo di evocazione e di deflusso, cioè l’esorcismo in azione, poteva non funzionare: ma il dispositivo come tale non era una «malattia», ma uno strumento di reintegrazione, un ordine tradizionalizzato di possibili efficacie simboliche, che disciplinava la crisi, le assegnava luoghi, tempi e modi determinati, e si sforzava di ricondurla verso un nuovo equilibrio. I singoli tarantati potevano occasionalmente essere considerati dei malati: ma il tarantismo cercava di introdurre nella malattia e nel modo di reagire ad essa un suo proprio modellamento, una sua propria regola culturalmente funzionante dell’abnorme e del normale, del dannoso e dell’efficace, del critico e del risolutivo.

Nel corso della nostra indagine sul campo in una sola circostanza il tarantismo ci apparve recedere al livello di vera e propria alterazione psichica, senza ormai nessun apprezzabile significato di reintegrazione culturale, cioè quando lo vedemmo nella cappella di S. Paolo, durante la celebrazione del 29 giugno. Tuttavia ciò che in quella circostanza l’équipe osservò non era il tarantismo, ma la sua disgregazione per opera dell’influenza cattolica. In cappella il dispositivo simbolico che gli era proprio, l’esorcismo della musica, della danza e dei colori non poteva funzionare, e quel che restava era la crisi appena modellata sul «comportamento dell’avvelenato» senza l’ordine rituale che invece operava ancora nell’esorcismo a domicilio. Le manifestazioni in cappella confermarono pertanto la non riducibilità del tarantismo a malattia psichica proprio perché ce lo facevano sorprendere avviato verso forme di disordine psichico solo quando, per una influenza culturale estranea, l’ordine del suo simbolismo mitico-rituale non poteva entrare in azione. [pp. 77-78] 
 
 
 
Fornire un orizzonte culturale alla crisi della presenza

La sostanziale concordanza di queste testimonianze – alle quali se ne potrebbero aggiungere altre – e la conferma che se ne trae dagli attuali relitti salentini, dimostrano che qui ci troviamo di fronte a una delle caratteristiche salienti del tarantismo in azione. Noi possiamo cioè affermare che il tarantismo come rito è costantemente individuato dalla graduale risoluzione coreutico-musicale di uno stato di crisi dominato dal crollo della presenza individuale, di guisa che se il discorso musicale è interrotto, o se la sua coerenza melodica non è rigorosamente osservata, il processo di risoluzione subisce automaticamente un arresto e la crisi si riproduce. Tutto accade come se un certo ordine ritmico di suoni sbloccasse quell’elementarissimo segno del vivere che è il muoversi, e come se, al tempo stesso, la disciplina del ritmo impedisse al muoversi di liquidarsi nella mera irrelata scarica psicomotoria: l’ordine coreutico-musicale si configura in tal modo come un amplissimo orizzonte simbolico di ripresa, il più ampio di cui il tarantismo dispone, e quasi come un ponte lanciato fra Scilla e Cariddi, cioè fra l’angosciosa sospensione dell’inerte stupore e la frenetica esplosione di una vitalità delusoria, avviata senza destino umano verso il rapido consumo e il totale annientamento. Il tarantismo comincia, prosegue e termina – come rito in atto – nella elementarissima prospettiva di un ridischiudersi all’esistenza storica collocandosi pro tempore sotto la protezione della ripetizione ritmica, sicura e prevedibile al pari dell’orbita di un pianeta: il tarantismo inaugura il suo destino di fenomeno culturale per l’impegno di mantenersi in quest’orbita sottraendosi drammaticamente alle ricorrenti sollecitazioni eccentriche dell’assenza totale o dell’immobilità stuporosa o della scarica irrelata. Per l’influenza culturale del tarantismo il modello di comportamento coreutico-musicale venne in tal modo acquistando per i pugliesi l’immediato significato di un elementarissimo ordine culturale cui affidarsi elettivamente nel momento in cui incombeva l’estrema catastrofe esistenziale [.]

[...]

L’ampissimo orizzonte della risoluzione coreutico-musicale della crisi sarebbe stato tuttavia troppo generico nella sua norma, e quindi troppo labile, se la tradizione non avesse provveduto a consolidarlo attraverso una tessitura simbolica più definita e concreta, più articolata in immagini pertinenti e funzionali: questi più circoscritti orizzonti simbolici tradizionalizzati concernono il rapporto fra la taranta, la musica, gli strumenti musicali, la danza e il tarantato. [pp. 154-156]


 
Il nesso del tarantismo con la stagione estiva
 
Il nesso fra tarantismo e stagione estiva va quindi valutato essenzialmente sul piano simbolico. La stagione di cui qui si parla non è un complesso di nudi dati astronomici e metereologici, di mutamenti nel regno vegetale o animale, di semplici opportunità lavorative, ma è la concretezza esistenziale dell’estate pugliese durante l’epoca compresa fra il Medioevo e il secolo XVIII, nei corrispondenti quadri economico-sociali dominanti nella regione e differenziati per luoghi e per periodi. È l’estate del Tavoliere, traversata da venti orientali e aquilonari, appena addolcita nel Salento dallo spirare del favonio verso mezzodì: è l’estate che costringeva gli abitanti a respirare l’aria quasi ab ardenti clibano afflantem; è l’estate che sperimentò Alessandro D’Alessandro, quando viaggiò verso il principio del ’500 per loca diutino situ squalida, imbattendosi nelle comitive dei suonatori che andavano per terre e casali a curare i tarantati; ma è soprattutto la stagione del raccolto, quando sui campi di grano del Tavoliere e della Terra di Bari, negli orti e nei frutteti di Brindisi, nelle vigne di Taranto, si consumava il faticoso epilogo dell’anno agricolo, e riceveva fausta o infausta risposta la trepidante attesa del «pane» e del «vino». Era in questa stagione che veniva deciso il destino dell’anno, si colmavano i granai e le celle vinarie, si pagavano i debiti: gli animi entravano in un’epoca di drammatica sospensione, misuravano la forza e i limiti della fatica umana, e al più piccolo segno si volgevano prontamente al meraviglioso, come accadde a Venosa nell’estate del 1596, quando il tarantismo, come vedremo, insorse nel pieno di una crisi collettiva di sgomento esistenziale. Proprio per entro questo quadro si snodava la serie di esperienze connesse al raccolto: far cadere la spiga sotto la falce messoria, staccare il frutto dall’albero, pigiare l’uva nel tino, farsi procuratori di passione e di morte nel dominio delle piante alimentari, affrontare il vuoto vegetale e lavorativo che seguiva l’epoca del raccolto, andare incontro all’insicurezza della nuova annata agricola, sfidare l’insidia dei raggi solari acuti come frecce, e di subdoli animaletti il cui morso velenoso insinuava nelle vene un mortale languore e nell’animo una disperata ansietà.

Un’epoca di così alta tensione sociale era già di per sé predisposta ad allargarsi in tempo simbolico di preclusioni esistenziali, tramutandosi in un’epoca di efflorescenza di tutti i conflitti irrisolti. Una stagione in cui le antinomie del destino umano, quali poteva viverle una società contadina, si imponevano alla coscienza con energia particolare, e in cui la potenza e il limite del lavoro trasformatore erano saggiati nel modo più pregnante, aveva per così dire i titoli preferenziali per assurgere a quadro stagionale di evocazione e di deflusso del cattivo passato. Il periodo dell’anno nel quale le forze produttive misuravano se stesse nella vicenda del raccolto dei più preziosi frutti della terra, dischiudeva l’orizzonte di un altro raccolto, da eseguire su campi invisibili con una simbolica falce messoria. L’epoca che, sul piano economico, significava la possibilità di pagare i debiti, sul piano simbolico si trasfigurava in un periodo in cui potevano essere pagati anche i debiti esistenziali accumulati nel fondo dell’anima. E infine, poiché nel mietere, nello spigolare, nello spiccare il frutto dal ramo, nel raccogliere legumi negli orti si verificava talora l’incidente di patire il morso di un ragno più o meno velenoso, l’immagine del morso e del ragno si sottraeva alle esigenze di una logica orientata verso l’«osservazione della natura», e operava invece come spola di una tessitura autonoma il cui ordito seguiva la coerenza della logica simbolica. Così in luogo di crisi individuali senza orizzonte, in cui le preclusioni operate dalla vita in società potevano riproporsi in qualsiasi momento dell’anno sotto forma di sintomi nevrotici, il simbolismo stagionale del tarantismo prospettava in primo luogo l’ancoraggio di tali crisi nei limiti di tempo di un’epoca determinata, modellava la crisi secondo il comportamento dell’avvelenato, offriva un piano mitico-rituale di evocazione e di deflusso mediante il simbolismo della musica, della danza e dei colori, in un adeguato scenario cerimoniale. In virtù del simbolismo stagionale le crisi individuali potenzialmente disseminate in un qualsiasi momento del tempo venivano tendenzialmente raccolte e concentrate in un’epoca elettiva di insorgenza, dove trovavano tutto un sistema simbolico che, col consenso e col soccorso della società, era pronto ad entrare in azione e a svolgere la sua efficacia risolutiva. Si otteneva in tal modo il vantaggio di sgombrare i periodi «fuori stagione» dal rischio della crisi, e di istituire una sorta di dilazione nel pagamento dei debiti esistenziali contratti; e si otteneva altresì l’altro vantaggio di poter rateizzare tale pagamento in più estati successive, mediante il simbolo del morso che ogni anno rimorde col tornare dell’epoca del «primo morso», e che ogni anno può essere esorcizzato nel «verde» paradiso degli smarriti amori, nel «rosso» paradiso della gloria e della potenza non conseguite, e in quant’altro offriva il dispositivo di sogno del tarantismo in azione. [pp.179-181]



Le fantasie compensatorie dei tarantati
 
In generale il simbolo mitico-rituale del tarantismo appare articolato in modo da offrire orizzonte di evocazione, di deflusso e di risoluzione ad alcuni contenuti critici e conflittuali determinati dalla pressione che, nel regime esistenziale dato, esercitava l’ordine sociale dalla prima infanzia sino alla maturità e alla vecchiaia. Fra questi contenuti sta in primo luogo l’eros a vario titolo precluso dall’ordine familiare o dal costume o dalle traversie d’amore: il che concorre a spiegare perché al tarantismo abbiano sempre partecipato in larga misura le donne, non escluse quelle appartenenti a ceti sociali elevati. Il ricorrente scenario del bosco, delle fronde, dei pampini, delle fonti mormoranti, il predominio di quel «verde» che nel simbolismo medievale dei colori era associato con l’amor nuovo, la frenetica danza al ritmo della tarantella e l’atteggiarsi a sposa splendidamente abbigliata, i canti dell’amore agonizzante o morto e dell’aspirazione al mare, il gemere riplasmato in nenie funebri, gli esorcismi accennanti alla taranta che morde il pube, i denudamenti e le esibizioni oscene, e infine alcune figure al suolo durante la danza del piccolo ragno che potevano valere come posizioni e ritmi di un amplesso immaginario, costituivano un ordine di possibili orizzonti simbolici di ripresa e di deflusso, per entro i quali le tarantate cercavano di dar voce e gesto di sogno alla oscura pulsione libertina che le travagliava. D’altra parte per gli aspetti più propriamente aggressivi di questa pulsione il tarantismo offriva, oltre l’orizzonte cromatico del rosso, spade da maneggiare, nel cui fulgore poter contemplare la propria immagine come in uno specchio. In tal guisa le donne di qualsiasi ceto, che il costume condannava a un aspro regime di erotiche preclusioni, le giovinette nell’epoca della pubertà, le vedove, le spose infelici, le zitelle dagli sfioriti amori trovavano nell’ordine culturale del tarantismo certe possibilità di far defluire nella realizzazione simbolica quanto la pressione sociale aveva confinato nelle minacciose chiuse dell’inconscio. Con zelo particolare partecipavano a questi «carnevaletti delle donne» pauperae et pauperculae mulieres: spinte dal sesso, e in attesa dell’epoca del sogno, andavano accumulando come potevano i loro risparmi per dilapidarli nel gran giorno, quando dal dolore e dall’angoscia avrebbero tratto il piccolo rustico paradiso della musica, della danza e dei colori. Un secondo ordine di contenuti critici che coinvolgeva entrambi i sessi era in rapporto con le preclusioni della infima condizione sociale e della miseria. Rispetto a questi contenuti critici il tarantismo offriva, oltre i simboli del rosso e del fulgore delle armi, la possibilità di mimare scene di grandezza e di potenza, di successo e di gloria: ognuno poteva così rialzare la propria sorte tanto quanto la vita l’aveva abbassata, e viveva episodi che si configuravano come il rovescio della propria oscura esistenza. Al verde paradiso del sognante amore si contrapponeva un paradiso in rosso, un agonismo che si sforzava di mimare pose eroiche, il sognare di essere un grande della terra, un atleta, un abile, un capitano, un tribuno, un artista a corte, un Re dei Re. Allo stesso orizzonte di forza e di prestigio, di potenza e di destrezza apparteneva la pretesa, attestata dalla letteratura più antica, di svelare tesori nascosti, di comunicare il nome di persone non mai prima conosciute, e di predire il futuro. Infine al tarantismo erano talora guadagnati i sacerdoti e quanti pativano le preclusioni del chiostro. [pp. 192-193]



Tarantismo come religione del rimorso (o piuttosto come psicodramma terapeutico): suo collegamento col vudu haitiano e con altre terapie simbolico-rituali.

Possiamo ora tentare di comporre in una prospettiva unitaria i risultati dell’analisi della letteratura diacronica e quelli dell’indagine sul campo, e considerare in che senso è legittimo parlare del tarantismo come di una religione del rimorso. Con la parola «rimorso» siamo soliti intendere la pungente rammemorazione di una scelta mal fatta, e l’esigenza di una scelta riparatrice, che estingua il debito contratto verso noi stessi e verso gli altri. Nel rimorso così inteso la scelta cattiva sta interamente davanti alla memoria, e noi sappiamo con precisione di che cosa portiamo rimorso, anche se non sempre ci è possibile soddisfare «fino all’ultimo centesimo» l’esigenza di una riparazione. Nella crisi del tarantismo si tratta invece di un conflitto irrisolto in cui la presenza individuale è rimasta imprigionata, e che smarrito per la rammemorazione risolutiva torna a riproporsi come sintomo chiuso, cifrato, sottratto a ogni potenza di decisione e di scelta. Nella crisi del tarantismo il rimorso non sta nel ricordo di un cattivo passato, ma nella impossibilità di ricordarlo per deciderlo e nella servitù di doverlo subire mascherato in una nevrosi: e proprio per questo rischioso vuoto della memoria e per il conseguente carattere di «estraneità» che il sintomo mascherato assume per la coscienza, il simbolo del tarantismo configura come «primo morso» ciò che in realtà è «ri-morso» di un episodio critico del passato, di un conflitto rimasto senza scelta. D’altra parte proprio mediante il simbolo della taranta, tale conflitto entra nella coscienza, sia pure nella forma alienata di una taranta che morde e avvelena: vi entra però non come nuovo sintomo della malattia, ma come progetto di evocazione e di deflusso, di ripresa e di reintegrazione, come sistema simbolico di una taranta avvelenatrice, che ha ritmo, melodia, canto, danza, colore e che può essere perciò ascoltata, cantata e vista durante l’identificazione agonistica della danza della «piccola taranta». Il simbolo della taranta mette in movimento un dispositivo di sicurezza che ha tutti i caratteri della plasmazione culturale: attraverso il suo proprio orizzonte e gli orizzonti simbolici minori cui presiede, le singole crisi individuali sono sottratte alla loro incomunicabilità nevrotica, per ricevere una comune plasmazione nel comportamento dell’avvelenato e per fruire di un comune trattamento risolutivo per mezzo della musica, della danza e dei colori e di quant’altro dispone il dispositivo in azione. Nel simbolo della taranta il rimorso appare alienato nel primo morso e nella ripetizione stagionale del nesso crisi-esorcismo, ma la vicenda mitico-rituale è orientata complessivamente verso la liquidazione delle passività psichiche, secondo una posologia «pro anno» che utilizza, con la collaborazione della comunità, il piano di evocazione e di deflusso del mito e del rito. Per questo orientamento il simbolo della taranta comporta un ethos, cioè una mediata volontà di storia, un progetto di «vita insieme», un impegno a uscire dall’isolamento nevrotico per partecipare a un sistema di fedeltà culturali e a un ordine di comunicazioni interpersonali tradizionalmente accreditato e socialmente condiviso: un ethos che, per quanto elementare e storicamente condizionato, e per quanto «minore» nel quadro della vita culturale dell’Italia meridionale, consente di qualificare il tarantismo come «religione del rimorso» e come «terra del rimorso» la molto piccola area del nostro pianeta in cui questa religione «minore» vide per alcuni secoli il suo giorno.

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D’altra parte il paragone fra il tarantismo con i culti africani di tipo bori o zar e con i culti afroamericani conosciuti col nome di macumba, candomblé, santeria e vodu presenta particolare interesse anche da un altro punto di vista, e cioè perché anche su questi culti, come già sul tarantismo, è pesata l’interpretazione naturalistica che li «riduceva» a malattia. Sempre a proposito del vodu, alla iniziale interpretazione come nevrosi proposta da Dorsainvil, è recentemente seguita una più equa valutazione orientata in senso storico-culturale. Il Métraux sottolinea il carattere psicopatico della «fase iniziale» della crisi, ma, al tempo stesso pone in evidenza il carattere controllato, disciplinato, culturalmente significativo e psicologicamente risolvente che assume la trance quando nel posseduto emerge e agisce un loa definito, al cui modello tradizionale il comportamento del posseduto si mantiene fedele. Ma lasciamo la parola allo stesso Métreaux:

La possessione non potrebbe essere spiegata unicamente in termini di psicopatologia. Probabilmente la possessione ha tale carattere solo presso un ristretto numero di individui che sono, senza equivoco possibile, dei veri e propri nevrotici soggetti a ciò che viene chiamato sdoppiamento della personalità... Le possessioni rituali sono state frequentemente attribuite a disordini di natura isterica, ma già una ventina d’anni fa Herskovits rifiutò questa interpretazione segnalando l’aspetto controllato e stilizzato del fenomeno e la sua frequenza in una società dove esso costituisce un mezzo normale di rapporto con le potenze soprannaturali... A differenza dell’isterica che rivela le sue angosce e i suoi desideri per mezzo di un «sintomo» – modo di espressione individuale – il posseduto rituale si deve conformare all’immagine classica di un personaggio mitico... Gli adepti del vodu distinguono fra la possessione da parte di loa, e la possessione di spiriti maligni, che è temibile e di natura morbosa. La trance può essere dunque un meccanismo psicologico che è utile alla salute mentale del gruppo e che gli evita la varietà e la molteplicità degli aspetti che rivestono le nevrosi e le psicosi nel seno della nostra propria società... Il vodu procura ai suoi adepti l’evasione da una realtà troppo spesso sordida, è un istituto che «funziona».198 [pp. 201-212]
 
 
 
L'ostilità della chiesa alle terapie coreutiche e l'immagine demoniaca della menade 

La polemica paolina contro l’anarchia pneumatica della chiesa di Corinto e a favore di un Dio che non è dio di disordine, ma di serenità, colpiva nel cuore i culti orgiastici, che apparivano all’apostolo nel segno del caos, fracasso di bronzi sonori e di cembali vibranti di fronte all’interiore potenza morale dell’agape cristiana: e se per la coscienza storiografica attuale quei culti racchiudono il loro ordine, la loro mania telestica per la coscienza dell’apostolo combattente, essi si configuravano necessariamente come negatività assoluta, come tentazione demoniaca. D’altra parte il nuovo «pungolo», sperimentato dall’apostolo sulla via di Damasco, si opponeva all’antico anche per un altro rispetto: esso infatti apparteneva in proprio al mondo maschile, e a quello femminile solo in una forma subordinata e mediata. Nel corso della stessa polemica così vigorosamente condotta nella prima lettera ai Corinzi, Paolo stabilisce, com’è noto, una gerarchia secondo la quale se Dio è il capo di Cristo e Cristo è il capo dell’uomo, il capo della donna è l’uomo, onde la donna riflette Dio attraverso la mediazione dell’uomo. Questa teorizzazione non è gratuita ma serve all’apostolo per giustificare una prescrizione precisa sul comportamento delle donne nelle assemblee liturgiche: mentre l’uomo, immagine e gloria di Dio, può stare in chiesa a capo scoperto, la donna – che è gloria dell’uomo e suo tesoro privato – deve invece velarsi come segno della sua soggezione a Dio mediata dalla sua soggezione all’uomo. L’immagine culturale della menade, così come la tragedia greca e l’iconografia ce l’hanno trasmessa, era in tal modo respinta dall’ordine cristiano: l’obbligo del capo velato durante l’assemblea liturgica fondava infatti un modello di comportamento in antitesi a quello delle chiome al vento, nel ritmo di una frenetica danza, allo stesso modo che nel Vangelo di Giovanni il dolore muto e interiore di Maria ai piedi della croce fondava un modello di comportamento in antitesi a quello delle lamentatrici pagane. [pp. 260-261]



Le epidemie coreutiche del Medioevo
 
È in questa più ampia prospettiva che vanno considerate le cosiddette epidemie coreutiche del Medioevo, sul cui tronco si innestò il tarantismo pugliese. In generale la lotta ingaggiata contro i culti pagani del Cristianesimo in espansione e la sostituzione di corrispondenti feste cristiane alle date e nei luoghi in cui erano celebrate feste pagane, concorsero in primo tempo e soprattutto nelle campagne, ad aggravare i disordini psichici di cui le feste pagane erano un organico orizzonte di controllo e di reintegrazione. La vita religiosa delle comunità agricole pagane aveva concentrato il trattamento di questi disordini, attuali o latenti, in date festive legate a momenti critici di particolare rilievo per la vita individuale e collettiva, come il solstizio invernale, il risveglio primaverile della vegetazione, il solstizio estivo e l’epoca del raccolto: ma ora le stesse feste cristiane che avevano preso il posto di quelle pagane rischiarono di essere sconvolte dall’improvviso insorgere di disordini psichici, resi più gravi dal fatto che la civiltà cristiana aveva dichiarato guerra alle antiche forme pagane di disciplina culturale. In particolare le feste di S. Giovanni (24 giugno) e di S. Vito (15 giugno) – legate entrambe all’epoca del raccolto – furono su scala europea esposte alle tentazioni eversive e recessive della crisi. Ciò impose alla Chiesa il problema di riadattare le feste in quistione in modo da far funzionare nuovi orizzonti di controllo che sostituissero gli antichi: l’impiego dell’esorcismo canonico e la riplasmazione penitenziale della crisi furono i mezzi cui la Chiesa ordinariamente ricorse per fronteggiare la situazione. Ma al tempo stesso la Chiesa non poté evitare che in un modo o nell’altro, per spontanea rigerminazione o per intervento regolatore delle autorità civili, o infine per compromessi e tolleranze dello stesso clero, riaffiorassero le vecchie forme di disciplina coreutico-musicale insieme ad altre eredità dei culti pagani.

Nelle più antiche testimonianze sulle epidemie coreutiche dell’Europa settentrionale il fenomeno si presenta come un mero disordine psichico stagionalmente condizionato che esplodeva improvviso e che contagiava intere collettività. Di questo tipo dovette essere per esempio l’agitazione che si impadronì dei fedeli che, nel Natale del 1021, assistevano alla messa nella chiesa di Kolbig. Carattere sostanzialmente analogo mostra la famosa epidemia coreutica che nel 1347 ebbe inizio ad Aquisgrana in occasione della festa di S. Giovanni e che dilagò poi in tutto il bacino del Reno, raggiungendo Liegi, Utrecht, Tongeren, Colonia e Metz. Si trattava di vere e proprie turbe di ossessi, senza distinzione di sesso e di età, la cui furiosa agitazione non aveva nulla della danza rituale. Le cronache, fra l’altro, non danno rilievo all’intervento di una disciplina musicale, ma indugiano piuttosto sul carattere eversivo di questa daemonica pestis, che colpiva uomini e donne, maxime pauperes et levis opinionis, ad magnum omnium terrorem. Sembrò addirittura che fosse in gioco l’intero ordine sociale e culturale quando si videro gli ossessi di Liegi, riuniti in gruppi compatti, vomitare ingiurie sui sacerdoti riuniti per gli esorcismi, e quando nel corso di una pratica esorcistica un indemoniato lasciò dire al suo demone che gli spiriti maligni progettavano di passare dal corpo dei poveri a quello dei ricchi, e poi ancora in quello dei principi, per rovesciare il clero e impadronirsi dei suoi beni: progetto che anticipa sinistramente di quasi due secoli quello che poi sarà attuato, con modalità ben diverse, all’epoca della riforma.
 
[...]

Il particolare rilievo della catartica musicale si viene configurando più tardi, per esempio nell’epidemia coreutica che esplose a Strasburgo nell’anno 1518.

Molta gente danzava al suono di pifferi e di tamburi, e il consiglio municipale della città, per fronteggiare il disordine, istituì posti di ballo nei locali delle corporazioni e dei mercati, non mancando di procacciare suonatori e ballerini in numero sufficiente per darsi il cambio nella grave fatica di far danzare gli agitati e gli ossessi sino alla perdita della coscienza. La danza veniva eseguita anche in una grotta trasformata in cappella di S. Vito, presso Zabern, e aveva luogo intorno all’altare, finché i ballerini (o le ballerine) cadevano ai piedi dell’immagine del Santo. Si considerava la crisi di S. Vito come una sorta di fascinazione o di malefizio, e maledizioni come Gott geb dir Sankt Veit (Dio ti mandi San Vito) o Dass dich Sankt Veit ankäme (ti venga S. Vito) erano già nel 1485 passibili di pena, come apprendiamo dalla legislazione della città di Rottweil. Una testimonianza più tarda, quella del medico Gregorio Horstius di Ulma ci inforna di un modellamento cerimoniale della crisi di S. Vito in modo che essa si ripeteva annualmente all’approssimarsi della festa, e ogni anno comportava un trattamento coreutico-musicale in cappella:

Mi ricordo di aver parlato la scorsa primavera con alcune donne che ogni anno visitano la cappella di S. Vito che si trova in Drefelhausen, non lontano da Geislingen, presso Weissenstein, nel territorio di Ulma. Queste donne danzano giorno e notte e con sensi alterati, sino a cadere in estasi, nel quale modo sembra che guariscano, sì da non avvertire quasi disturbi per tutto l’anno, sino al prossimo viaggio, mese in cui sono afflitte da agitazione delle membra, come dicono, e quindi costrette di nuovo a portarsi al tempo della festa di S. Vito al detto luogo di danza. Una di queste donne ha dovuto ballare ogni anno nella Cappella di S. Vito per venti anni e più, un’altra per trentadue anni...315

Quest’ultima testimonianza rende particolarmente evidenti le affinità col tarantismo pugliese. Tuttavia nelle forme coreutiche dell’Europa settentrionale manca completamente il simbolismo musicale della taranta che morde e avvelena inducendo nell’avvelenato corrispondenti avversioni o elettività melodiche[.] [pp. 261-263]
 
 
Ernesto De Martino, La terra del rimorso, Il Saggiatore, 2013 [ed. or. 1961]

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* Si tratta della sindrome da morso di Latrodectus tredecimguttatus, conosciuto come ragno di Volterra o malmignatta.
198 A. Métraux, Le vaudou haïtien, Parigi 1958, pp. 111, 119, 120, 322, e La comédie rituelle, p. 47. Sulla possessione rituale nel vodu si veda Melville J. Herskovits, Life in a Haitian valley, New York 1937, pp. 146 sgg.; Maya Deren, Divine Horsemen, New York 1953, cap. VII (trad. it, Milano 1959, pp. 292 sgg., nonché i lavori di Louis Mars. Per la possessione rituale presso i negri del Brasile si veda R. Bastide, Cavalos dos Santos, in Estudos afro-brasileiros, Boletin 154 da Facultad de Fil. Cien. e Let. de Un. de São Paulo, 3a serie 1933, pp. 29-60. Cfr. anche, del Bastide, Sociologie et Psychanalyse, Parigi 1950, pp. 252 sgg.
315 Citato in A. Martin, «Geschichte der Tanzkrankheit in Deutschland», Zeitschrift des Vereins für Volkskunde, XXIV (1914), p. 127



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