La contagiosità della danza

Ma la potenza della danza è una potenza pericolosa; co­me negli altri casi in cui ci si abbandona a se stessi, è più faci­le cominciare che fermarsi. Nei periodi in cui la straordinaria passione per la danza furoreggiò in Europa, tra il XIV e il XVII secolo, si ballava fino a cadere per esaurimento, come la dan­zatrice descritta nelle Baccanti, v. 136, o quella dipinta sul va­so greco n. 2471 di Berlino, e si giaceva privi di sensi, calpe­stati dagli altri danzatori. La danza è contagiosa; come os­serva Penteo nelle Baccanti, v. 778, si espande con la forza di un incendio. Il desiderio di ballare si impadronisce delle per­sone senza che la mente coscientemente vi consenta; ad esem­pio, si racconta che a Liegi, nel 1374, dopo l'ingresso in città di certi indemoniati seminudi, dalle teste inghirlandate, che ballavano in nome di san Giovanni, "molte persone apparente­mente sane di corpo e di mente furono improvvisamente in­vasate dai demoni e si unirono ai danzatori"; essi abbandona­rono casa e famiglia, come le Tebane della tragedia; perfino giovinette si staccarono dalla famiglia e dalle amiche e anda­rono vagando assieme ai danzatori. In Italia, nel secolo XVII, contro questa mania non valevano né gioventù né vecchiaia; "persino i canuti nonagenari al suono della tarantella gettava­no le loro grucce, e come se per le loro vene scorresse un liquore incantato capace di far ringiovinire, associavansi ai più fieri ballerini". Sembrerebbe dunque che la scena delle Bac­canti fra Cadmo e Tiresia si ripetesse di frequente, giustifi­cando l'osservazione del poeta (206 sgg.) che Dioniso non pone alcun limite di età. In qualche caso, anche scettici come Agave erano presi dal contagio, sia pur controvoglia, malgrado le convinzioni che professavano. In Alsazia, nel XV e XVI secolo, si credeva che fosse possibile imporre la mania per la danza invocandola mediante uno scongiuro sulla vittima; in certi casi lo stato ossessivo imposto ricompariva a intervalli regola­ri crescendo d'intensità fino al giorno di san Giovanni o di san Vito, quando si verificava una manifestazione violenta, se­guita dal ritorno alla normalità; anzi in Italia la "cura" perio­dica dei soggetti colpiti, mediante musica e danze estatiche, sembra abbia dato origine a una festa annuale. 


Una "tarantata" sottoposta terapia musicale


Quest'ultimo caso indica il modo in cui, in Grecia, la orei­basia rituale a data fissa potrebbe essere nata da accessi spon­tanei di isterismo collettivo. Canalizzando l'isterismo col dar­gli forma di regolare rito biennale, il culto dionisiaco lo contenne entro certi limiti e gli dette la possibilità di estrinsecar­si in maniera relativamente innocua. [Esattamente la stessa spiegazione che De Martino dava del fenomeno del tarantismo salentino]. La πάροδος delle Baccan­ti mostra l'isterismo domato e posto al servizio della religione; quello invece che si sviluppava sul Citerone era isterismo allo stato puro, il pericoloso bacchismo che scende come un ca­stigo sulle persone oneste e rispettabili e le trascina contro la loro volontà. Dioniso è presente in entrambi i tipi di isterismo: come san Giovanni o san Vito, egli è causa della pazzia e libera dalla pazzia, Βάκχος e Δύσιος. Occorre tener presente quest'ambivalenza, per intendere bene la tragedia; resistere a Dioniso significa reprimere gli elementi primigeni della pro­pria natura; il castigo sta nel crollo improvviso e completo de­gli argini interni: le forze naturali li travolgono irresistibil­mente e la civiltà è sommersa. [La demartiniana "crisi della presenza"].

 

Eric R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, BUR, 2009 [ed. or. 1951], pp. 331-332; ho omesso le note; le sottolineature in rosso e i commenti in blu tra parentesi quadre sono miei.

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