Perché la dottrina della reincarnazione rispondeva meglio all'esigenza di darsi ragione della sofferenza degli innocenti

Sotto il profilo morale, la reincarnazione offriva al problema della giustizia divina, proprio della tarda età arcaica, una soluzione più soddisfacente che non l'ereditarietà della colpa o il castigo dopo la morte nell'aldilà. Col progredire della eman­cipazione dell'individuo dall'antica solidarietà familiare, e mentre prendevano dimensione i suoi diritti come "persona" giuridica, il concetto dell'espiazione per procura di colpe altrui cominciò a diventare inaccettabile. Una volta che la legge umana ha riconosciuto l'uomo responsabile soltanto delle azio­ni proprie, la legge divina, prima o poi, deve riconoscerlo an­ch'essa. L'idea del castigo dopo la morte rendeva ragione in modo abbastanza soddisfacente del fatto che gli dèi sembravano tollerare il successo dei cattivi nella vita terrena: difatti la nuova dottrina la sfruttò a fondo, utilizzando l'espediente del­la "catabasi" per rendere veri e vividi all'immaginazione gli orrori dell'inferno. Il castigo d'oltretomba però non riusciva a spiegare perché gli dèi accettino l'esistenza del dolore umano, e in particolare quello immeritato degli innocenti. La reincarnazione invece lo spiega: per essa non esistono anime innocenti, tutti scontano, in vari gradi, colpe di varia gra­vità, commesse nelle vite anteriori. E tutta questa somma di sofferenze, in questo mondo e nell'altro, è solo una parte della lunga educazione dell'anima, che troverà il suo ultimo termine nella liberazione dal ciclo delle rinascite e nel ritorno dell'anima alla sua origine divina. Solo in questo modo, e sul metro del tempo cosmico, può essere realizzata completamente, per ciascuna anima, la giustizia intesa nel senso arcaico, cioè se­condo la legge del "chi ha peccato pagherà".
 
 
Eric R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, BUR, 2009 [ed. or. 1951], p. 199; ho omesso le note.

Commenti