L'origine della credenza dell'immortalità delle anime nei Greci: il culto di Dioniso

La religione popolare Greca prima dei culti  misterici non credeva nella sopravvivenza eterna delle anime nell'oltretomba


Le credenze popolari intorno al perdurare dell’anime dei defunti, credenze basate sul culto dell’anime e concresciute con alcune accezioni della dottrina omerica dell’anime, che contraddicono in fondo al culto di queste ma senza che la contraddizione sia avvertita, rimangono sostanzialmente immutate di forza in tutti i secoli della vita greca. Esse non contenevano in sé nessun germe di sviluppo ulteriore, nessuna esigenza d’una ricerca più profonda intorno all’esistenza ed agli stati dell’anima divenuta indipendente dopo la sua separazione dal corpo; e, soprattutto, non contenevano nulla che potesse elevare la credenza nella sopravvivenza dell’anime fino al concetto d’una vita immortale, eterna, senza fine. Il perdurare della vita dell’anima che il culto di questa presuppone e garantisce, è strettamente legato alla memoria dei sopravvissuti, alla cura, al culto ch’essi dedicano all’anima degli antenati. Se la memoria svanisce, se la pietosa cura dei vivi diminuisce, all’anima del defunto viene a mancare l’ultimo elemento che le dava ancora una parvenza di vita.

Non si poteva certamente sviluppare dal culto dell’anime il pensiero d’una vera immortalità di esse, della loro vita indipendente, imperitura, fondata sulle loro proprie forze. La religione greca, quale fioriva nel popolo d’Omero, non poteva produrre tali pensieri, né, se le fossero stati offerti dal di fuori, li poteva far suoi. Per farlo, avrebbe dovuto sagrificare la sua più intima natura.

Se l’anima è immortale, essa è, nella sua qualità più essenziale, uguale al dio; è essa stessa un essere divino. Chi, in Grecia, dice immortale, dice dio: sono idee equivalenti. Ed è questo, nella religione del popolo greco, il vero principio in forza del quale, nell’ordinamento divino del mondo, umanità e divinità sono e devono rimanere separate e distinte di luogo e di natura. Un profondo abisso divide i due mondi del divino e dell’umano. I rapporti religiosi tra l’uomo e la divinità si fondano essenzialmente su questa distinzione; l’etica della coscienza popolare greca ha le sue radici nella sommissione alle limitazioni e condizioni poste alle facoltà umane, alle umane aspirazioni alla felicità e alla libertà, tanto diverse dalla vita e dalla sorte degli dèi. Favole poetiche di rapimenti di singoli mortali a divina vita eterna dell’anima non divisa dal corpo, poterono bene insinuarsi nelle credenze popolari: ma rimasero sempre miracoli in cui l’onnipotenza divina, per speciali ragioni, aveva spezzato le barriere dell’ordine naturale delle cose. Ed era pure un miracolo se, dopo morte, le anime di singoli mortali erano elevate alla dignità eroica e, con ciò, a vita imperitura. L’abisso tra l’uomo e dio non era perciò meno immoto e profondo. Le vaste conseguenze dell’idea che quest’abisso in realtà non esiste affatto, che proprio secondo l’ordine naturale l’«anima» dell’uomo appartiene al regno degli dèi e, come creatura divina, ha vita immortale, si vedono facilmente: avrebbe rovesciato tutti i canoni religiosi delle comunità greche; mai essa avrebbe potuto diventare fede diffusa nel popolo greco.

Tuttavia in un certo momento sorge in Grecia, e in nessun luogo così presto ed esplicitamente come in Grecia, il pensiero della divinità dell’anima umana e dell’immortalità di questa come conseguenza della sua natura divina. Tale pensiero appartenne tutto al misticismo, una seconda religione, che, poco curata dalla religione popolare e dai suoi fedeli, si fece una solida base in singole sette, esercitò la sua azione su singole scuole filosofiche e, partendo da queste, poté insegnare ancora alla lontana posterità, in Occidente e in Oriente, il concetto fondamentale d’ogni vero misticismo: quello dell’unità essenziale, dell’unione dello spirito divino con l’umano da ottenersi per mezzo della religione, della natura divina dell’anima e della sua eternità.

Il misticismo crebbe come dottrina e teoria sul terreno d’altro culto più antico. Esso fece una fiamma duratura di quella luce che guizzava momentanea in faville sprizzanti nelle cerimonie d’un culto divino profondamente ispirato, tale da suscitare presaghe esaltazioni, culto che la Grecia aveva appreso dagli stranieri. La credenza nell’immortale vita eterna dell’anima ci appare per la prima volta, ma già chiara attraverso il suo rivestimento mistico, nelle dottrine d’una setta mistica che si univa nel culto di Dioniso. Il culto di Dioniso deve aver posto il primo germe della credenza nell’immortalità dell’anima. [pp. 277-79]
 
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Come si svolgeva un baccanale

Il culto di questa divinità tracia aveva carattere quasi orgiastico; esso differiva in tutto da ciò che sappiamo da Omero del servizio ­divino presso i Greci, mentre aveva molti punti di contatto con quello che i Frigi, un popolo quasi identico ai Traci, dedicavano alla madre Cibele. La festa era celebrata sui monti, nella notte oscura, alla luce malferma delle fiaccole. Risonava una musica rumorosa; squilli di cennamelle bronzee, un cupo tonare di grandi timballi e, fra mezzo, il suono profondo dei flauti «che invitano alla follia», dei flauti la cui anima fu destata soltanto dagli auleti frigi. Eccitata da questa musica selvaggia la schiera dei festaiuoli danza tra alte grida di giubilo. Di canti non sappiamo nulla; la violenza della danza, togliendo il fiato, li rendeva impossibili. Ché non era il passo di danza modera­tamente mosso con cui i Greci d’Omero procedevano nel peana, ma una danza circolare furiosa, vorticosa, precipitosa, con la quale la schiera degli invasati percorreva di corsa le pendici dei monti. Per lo più erano donne che si aggiravano in questa danze vorticose, fino a sfinirsi; erano camuffate stranamente: indossavano delle «bassare», lunghe vesti fluttuanti, di pelli di volpe, pare; sulle vesti, pelli di capriolo; sul capo, corna. I capelli ondeggiano selvaggiamente; nelle mani hanno serpenti, sacri a Sabazio; brandiscono pugnali o tirsi le cui punte sono nascoste tra l’edera. Così esse infuriano fino alla massima eccitazione di tutti i sensi, poi, invase da «sacro furore», si precipitano sugli animali scelti per il sagrificio, li afferrano, li sbranano, strappano coi denti la carne sanguinolenta, la mangiano avidamente, cruda.

Per mezzo di descrizioni poetiche e di figurazioni si può ricostruire facilmente lo svolgersi di queste fanatiche feste notturne. Ma che significato aveva tutto ciò? Il miglior modo per determinarlo sarà quello di prescindere il più possibile da teorie derivate da tutt’altro ordine d’idee, e di considerare gli effetti che si notavano in coloro che partecipavano alla festa come provocati con intenzione e quindi come lo scopo o almeno uno degli scopi di queste strane cerimonie. Coloro che partecipavano a queste danze si costringevano ad una specie di mania, ad una terribile tensione del loro essere; li coglieva un’estasi in cui apparivano a se stessi ed agli altri «pazzi, ossessi». Questa sovreccitazione della sensibilità fino a dare delle visioni, era provocata nei soggetti impressionabili dalla pazza danza vorticosa, dall’oscurità, dalla musica, da tutti i mezzi di cui disponeva questo culto fatto d’eccitamenti. Ed era precisamente questa fortissima eccitazione lo scopo che si voleva raggiungere. Quest’acutizzarsi della sensibilità artificialmente prodotto sembra avesse significato religioso, in quanto pareva che solo per mezzo di questa straordinaria tensione, di questo dilatarsi del suo essere, l’uomo potesse venire a contatto con esseri d’un mondo superiore, con dio e con le schiere dei suoi spiriti. Il dio è presente, invisibile, tra i suoi adoratori invasati; oppure non è lontano e il rumore della festa serve a farlo avvici­nare di più. E si racconta del dio che sparisce in un altro mondo e del suo ritorno fra gli uomini. Ogni second’anno si festeggia il suo ritorno; ed è appunto questo suo arrivo, questa «epifania» che dà occasione alla festa. Il dio compare tra le donne danzanti in forma di toro, come se l’immaginava la rozza credenza antica; oppure dei «mimi della paura», nascosti, facevano intuire la presenza ­dell’Invisibile imitando il muggito del toro. E quelli che celebrano la festa, in preda a un’invincibile eccitazione, gli si affollano intorno per unirsi con lui, superano la stretta corporalità della loro anima, cadono in estasi e si sentono essi stessi, straniati alla loro natura normale, quasi spiriti della schiera che circonda muggendo il dio. Anzi, hanno parte alla vita stessa del dio: non può significare altro il fatto che i servi del dio si chiamano, nell’estasi, col nome del dio stesso; chi, nell’eccitazione, diventa una sola cosa col dio si chiama Sabos, Sabazios. Anche in essi i tratti sovrumani si confondono coi non-umani; come il dio selvaggio, anch’essi si precipitano sull’animale destinato al sagri­ficio, per mangiarlo crudo. Per rendere visibile esteriormente questa metamorfosi del loro essere, coloro che partecipano a questa festa vertiginosa si sono mutati di vestito: assomigliano, nell’abito, ai compagni del fanatico tiaso del dio; le corna che si mettono in capo ricordano il dio stesso che ha figura di toro e porta le corna, ecc. Il tutt’insieme si potrebbe chiamare una rappresentazione religiosa, poiché i mezzi onde evocare insolite figure dal mondo degli spiriti sono preparati ad arte. Ma è, insieme, più che uno spettacolo: ché non si può dubitare che gli stessi attori fossero presi dall’illusione di vivere in altra persona. I terrori della notte, la musica e particolarmente quei flauti frigi ai cui suoni i Greci attribuivano il potere di rendere chi li udiva «pieno del dio», la danza vorticosa, tutto ciò poteva realmente produrre in nature predisposte uno stato sovrec­citato di visione, in cui vedevano fuori di sé tutto ciò che in sé pensavano e immaginavano. Bevande inebrianti, al cui uso i Traci erano molto dediti, potevano aumentare l’eccitazione; forse, anche il fumo di certi semi coi quali essi, come gli Sciti e i Massageti, sapevano ubbriacarsi39. Si sa, che anche ora, in Oriente, il fumo dell’haschisch dà visioni e produce estasi religiose. Per chi è in estasi, tutta la natura è mutata. «Soltanto quando sono invasate, le Baccanti attingono dai fiumi latte e miele, e non quando sono tornate in sé», dice Platone. Miele e vino sgorgano per loro dalla terra; i profumi di Siria le circondano. All’allucinazione s’accompagna una condizione dei sensi, per cui il dolore stesso è godimento, oppure una sensibilità al dolore quale talvolta va unita a una tensione così forte.

Ogni cosa ci fa vedere una forte eccitazione di tutto l’essere, in cui pareva non esistessero più le condizioni della vita normale. Si spiegavano tutti questi fenomeni assolutamente fuori del comune, dicendo che l’anima di questi «ossessi» non era «in essi» ma ch’era «uscita» dal loro corpo. E, originariamente, i Greci volevano dire proprio questo quando parlavano dell’«estasi» in questi stati orgiastici d’eccitazione. Quest’estasi è «una pazzia passeggera», come la pazzia è un’estasi duratura. Ma l’estasi, la alienatio mentis transitoria, nel culto di Dioniso non è un incerto errare dell’anima nei domini della vana illusione: è invece una mania religiosa, una santa pazzia in cui l’anima, fuggita dal corpo, si unisce con la divini­tà. Ora, essa è presso, è dentro il dio, nell’«entusiasmo»; chi n’è preso è «ἔνθεος», vive ed è nel dio; chiuso ancora nell’io finito, sente e gode la pienezza d’una vita infinita.

Nell’estasi, liberazione dell’anima dalle strettoie del corpo e comunanza col dio, crescono nell’uomo delle forze di cui nella vita comune, inceppata dal corpo, egli non sa nulla. Come ora si muove liberamente, spirito fra gli spiriti, così, liberata dalla relatività del tempo, l’anima può vedere ciò che ai soli spiriti è dato conoscere: ciò ch’è lontano nel tempo e nello spazio. Dal culto entusiastico degli adoratori traci di Dioniso deriva la «mantica per ispirazione», quella forma di profezia che non deve aspettare i dubbi segni casuali e tutti esteriori della volontà del dio (come avviene sempre nei profeti d’Omero), ma che, nell’«entusiasmo», si mette in comunicazione immediata col mondo degli dèi e degli spiriti, e così, in uno stato di spirito sublimato, indaga e predice il futuro. Ciò può avvenire soltanto nell’estasi, nella pazzia religiosa, quando «il dio entra nell’uomo»; famose per la loro mantica per ispirazione sono le Menadi. È certo e s’intende facilmente che il culto tracio di Dioniso, come era nient’altro che una violenta tensione prodotta artificialmente nell’uomo allo scopo d’istituire una relazione diretta tra lui ed il mondo degli spiriti, così anche alimentava lo spirito profetico dei profeti veggenti nella pazzia. In Tracia, fra i Satri, c’erano profeti della stirpe dei Bessi che amministravano l’oracolo di Dioniso, posto sopra un alto monte; la profetessa di quel tempio era una donna che profetizzava nello stesso modo che la Pitia di Delfi, cioè in rapimento estatico. Lo sappiamo da Erodoto; ed anche altro sappiamo della mantica dei traci e del suo stretto rapporto con l’orgiastica del culto di Dioniso. [pp. 282-293]
 
 

Le danze sfrenate del culto di Dioniso e i paralleli nella Germania dell'età moderna
 
Pare dunque che il culto di Dioniso si sia esteso, non senza incontrar resistenza, dal nord nella Beozia, dalla Beozia nel Peloponneso, toccando presto anche alcune isole. In realtà, quand’anche non ce ne fosse rimasta notizia, noi dovremmo immaginare che una ripugnanza profonda per l’ebbrezza del culto tracio, un’antipatia affatto istintiva, impedissero ai Greci di abbandonarsi a quelle tremende eccitazioni e di perdersi nel mare sconfinato della sensazione. Quello scorrazzare sfrenato per i monti nelle feste notturne, che poteva convenirsi alle donne di Tracia, non poteva essere accettato senza lotta dalla borghesia greca, come quello che rompeva con ogni tradizione di costumi e di costumatezza. Le donne, pare, furono rapite in una vera ebbrezza dal nuovo culto, che probabilmente deve ad esse se fu introdotto. Ciò che si racconta dell’irresistibilità e della diffusione generale, delle danze bacchiche e della loro eccitazione, fa pensare a certe epidemie religiose, alcune delle quali invasero talvolta paesi interi. Si ricordi, ad esempio, quel che si narra della frenesia per la danza che, nata presso il Reno subito dopo le terribili scosse materiali e morali causate nel secolo 14° all’Europa ­dalla «morte nera», si estese rapidamente e per secoli non poté acquetarsi completamente. Un bisogno irresistibile traeva alla danza quelli ch’eran colpiti dal male: anche i circostanti erano attratti nel vortice della danza da un vivo impeto di consenso e d’imitazione; così la sofferenza s’allargava come un’epidemia; schiere di danzatori, uomini donne fanciulle, percorrevano il paese; le poche notizie che ci sono rimaste dimostrano inconfutabilmente il carattere religioso di queste danze, che anche il clero teneva in conto di «eretiche». I danzato­ri gridavano il nome di San Giovanni o anche quelli di «certi demoni»; allucinazioni e visioni religiose accompagnavano le loro estasi. Fu forse una simile malattia religiosa del popolo, conseguenza del profondo squilibrio psicologico che dovette portar seco la cosiddetta trasmigrazione dei Dori, che, in Grecia, rese gli animi accessibili al culto di Dioniso tracio e alle sue danze entusiastiche? [pp. 307-309]


Erwin Rohde, Psiche. Culto delle anime e fede nell'immortalità presso i Greci, Laterza, 2006 (Ed. or. ted., 1890-1894), ho omesso le note, ad eccezione della n. 39, che riporto in calce.

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39. Pomp. Mela, 2, 21 (e da lui Solino, 10, 5) dice dei Traci: epulantibus ubi super ignes quos circumsident, quaedam semina ingesta sunt, similis ebrietati hilaritas ex nidore contingit. (Cfr. Pseudoplut., De fluv., 3, 3). Senza dubbio erano semi di canape (κάνναβις) che operavano quest’effetto; e che i Traci conoscessero la canape dice espressamente Erod., 4, 74. Si ubbriacavano, dunque, con una specie di haschisch; il haschisch è un estratto di cannabis indica. Così anche gli Sciti, dei cui bagni di sudore in capanne ermeticamente chiuse, racconta Erod., 4, 75; facevano evaporare semi di canape su pietre arroventate e, sebbene Erodoto non ne dica nulla, dovevano cadere in istato d’ubbriachezza; forse, era questo un atto religioso. Presso i popoli primitivi l’ebbrezza passa spesso per uno stato d’ispirazione religio­sa. E la capanna scitica ha un notevolissimo parallelo nella «capanna sudorifera» degli indiani dell’America settentrionale, il cui significato religioso è accertato (vedine la descrizione in Klemm, Culturgesch., 2, 175-8; J.G. Müller, Amerik. Urrelig., 92). Ubbriachezza prodotta dal fumo di certi «frutti» anche presso i Massageti: Erod. 1, 202; completamente ubbriacati, essi finivano per alzarsi, per danzare e cantare. Può darsi che anche i Traci si siano serviti dell’ubbriacatura col haschisch per eccitarsi alle loro estatiche danze religiose. – Già gli antichi conoscevano le allucinazioni religiose prodotte dall’aspirazione di vapori aromatici. [Galen.] ὅρ. ἰατρ., 187 (XIX, 462): ἐνθουσιασμός ἐστι καθάπερ ἐξίστανταί τινες ἐπὶ (ὑπὸ?) τῶν ὑποθυμιωμένων ἐν τοῖς ἱεροῖς (φάσματα om-edd.) ὁρῶντες ἢ τυμπάνων, ἢ αὐλῶν ἢ συμβόλων (scriv. κυμβάλων) ἀκούοντες. Anche odorum delenimento potest animus humanus externari. Apul., Apol., 43. – Il γαγάτης λίθος ὑποθυμιαθείς serve come ἐπιληπτικῶν ἔλεγχος (Dioscor., Mat. med., 5, 145), provoca crampi dei colpiti dalla ἱερὰ νόσος (epilessia) [Orf.], Lith., 478 sgg. (Cfr. anche Damigeron, De lapidib., 20, p. 179; Plin., n. h., 36, 142; e Galeno, XII, 203 K).

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