Le tre virtù morali della cavalleria e del monachesimo: obbedienza, castità, povertà

In fondo monaci e cavalieri contestavano lo stesso assetto feudale che li aveva prodotti; non era la loro una contestazione teorica, bensì una contestazione pratica: un modus vivendi contestatario.

I monaci si davano una regola di vita indipendente dalla funzione ecclesiastica, sacerdotale; pertanto, visto che a questa funzione pressoché esclusiva era tenuta la Chiesa nel sistema carolingio, essi vivevano fuori del sistema. Ugualmente fuori ne erano i cavalieri, il cui ordine fu sì prodotto dalla società feudale, ma negativamente; ovvero fu l'effetto della negazione ai figli cadetti di usufruire dei titoli e dei beni paterni. Anche se è difficile provare statisticamente che la cavalleria avesse un corpo fondamentale formato da nobili diseredati, certo è che proprio i figli cadetti le dettero l'impronta nobiliare, ma anche quella «filiale» di minus habentes.

Le tre virtù morali, che noi abbiamo considerato «filiali», guidavano anche la vita dei cavalieri oltre quella dei monaci. L'obbedienza (al maestro dell'ordine) stava al posto della fedeltà feudale, ma anche dell'obbedienza al proprio padre; i cavalieri-cadetti non dovevano prestare il giuramento di fedeltà a cui era tenuto l'erede del feudo, né si ritenevano vincolati dai legami di sangue che non fornivano loro alcun privilegio. La loro condizione privilegiata derivava da un «sacramento» e non dal sangue: era Dio e non il padre loro che li faceva cavalieri, e a Dio dovevano la loro obbedienza che in pratica diventava, come per i monaci, osservanza delle regole dell'ordine.

La castità, che in termini sociali si riduceva al celibato, faceva parte di queste regole. Donde i cavalieri, che costituzionalmente si dovevano differenziare dal pater familias, esercitavano una paternità morale sugli orfani che, altrettanto costituzionalmente essi dovevano difendere dai soprusi del mondo. E difendevano costituzionalmente le vedove, diventandone i «mariti» morali. E difendevano le fanciulle che non potevano sposare, stabilendo così con l'altro sesso un rapporto platonico, ideale, un amore da «fidanzati» e non da amanti né da sposi.

Quanto alla povertà, era una virtù morale che derivava loro dall'esclusione dal patrimonio paterno; comunque essi la esercitavano fornendo gratuitamente la loro opera o devolvendo all'ordine ogni bene che avessero ricavato; tale e quale la povertà dei monaci correlata alla ricchezza dei monasteri.

Le tre virtù morali, in sostanza, servivano ad edificare un mondo, vuoi monastico vuoi cavalleresco, diverso dall'assetto feudale. Da questo punto di vista possiamo anche dire che l'ordine dei Templari, cavalleresco e monastico ad un tempo, se non apriva il passaggio dall'assetto feudale all'assetto moderno, prospettava almeno un'alternativa al feudalesimo. Se non altro, organizzava a sistema di vita la rottura dei vincoli gentilizi su cui si fondava il sistema feudale. Fatto sta che la soppressione violenta dell'Ordine può essere vista da due diverse angolazioni: c'è chi vi vede la reazione del «gentilizio» e del «nazionale» contro questo corpo estraneo all'uno e all'altro, sovranazionale, interetnico, indipendente dall'autorità dinastica; c'è chi vi vede il passo necessario per l'eliminazione di una resistenza medievale all'avvento del mondo moderno. In fondo, ciò che si giudica, prendendo a pretesto l'Ordine dei Templari, Filippo il Bello e Clemente V, è proprio il mondo moderno, quello che intendiamo scaturito dalla Rivoluzione francese.


Dario Sabbatucci, La prospettivo storico-religiosa, Il Saggiatore, 1990, pp. 183-84.

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