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Henri Bergson
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Bergson si richiama alla nozione di «funzione fabulatrice», che egli suppone essere effetto e non causa nei confronti della religione, dal momento che, se «non ci sono sempre stati romanzieri e drammaturghi... l'umanità non ha mai fatto a meno di religione» [H. Bergson,
Les deux sources de la moral et de la religion, Alcan, Paris, 1932, trad. it. Comunità, Milano, 1973, p. 92]. La religione viene così definita ricorrendo a due criteri il cui finalismo è evidente e affermato: la religione è «una reazione difensiva della natura contro il potere disgregatore dell'intelligenza» [
ibid., p. 104], in quanto l'intelligenza, lasciata a se stessa, spingerebbe all'egoismo; la religione «è una reazione difensiva della natura contro la rappresentazione dell'inevitabilità della morte, compiuta dall'intelligenza» [
ibid., p. 112]: diversamente dall'animale, l'uomo sa di dover morire e questa certezza «contraria l'intenzione della natura» [
ibid.], sorgendo in un mondo fatto per vivere. Affinché l'uomo (l'individuo) non si preoccupasse anzitutto dei disagi impostigli dalla vita sociale e l'idea della morte non facesse rallentare in lui il movimento della vita, bisognava che la religione da una parte gli imponesse delle proibizioni e degli dèi, e dall'altra gli promettesse la vita dopo la morte.
Marc Augé, voce "Religione" in Enciclopedia Einaudi, vol. 11, Einaudi, 1980, p. 909.
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