I primitivi di Remo Cantoni

[L'opera di Cantoni - che è la rielaborazione a ventidue anni di distanza di un testo uscito nel '41 - intende proporre un esame critico delle posizioni più rilevanti degli studi sulla mentalità primitiva. Diversi capitoli sono dedicati all'esplorazione delle categorie del pensiero primitivo: spazio, tempo, personalità, numero, tecnica e magia, ecc. I punti di partenza sono costituiti dalle opere di Lévy-Bruhl e di Durkheim, a cui vengono spesso accostate le osservazioni e le tesi di Eliade, Jung, Van der Leeuw, De Martino, Frazer, Bergson e di altri studiosi che si sono occupati di religione, di mito, di magia e di tutto ciò che è in qualche modo collegato al pensiero dei primitivi. C'è poi un capitolo ("Ambiguità della coscienza mitica") in cui l'Autore prende in esame le teorie sul mito di vari studiosi che se ne sono occupati: Lévy-Bruhl, Eliade, Cassirer, Frazer, Kelsen, Gusdorf, Durkheim. I capitoli successivi mi sembrano meno interessanti e un po' troppo ripetitivi nei concetti esposti. Cantoni si pone su una posizione simile a quella di De Martino, di Brelich, di Pettazzoni, di Sabbatucci, ecc., cioè di quegli studiosi influenzati dal crocianesimo e critici nei confronti  sia della scuola francese (Durkheim, Mauss, Lévy-Bruhl), sia di quella fenomenologica e antistoricistica (Eliade, Kerényi, Van der Leeuw, Frobenius, ecc.), ma critici altresì nei riguardi di quella "liquidatoria" dei vari Frazer, Kelsen, ecc. che vede nella mentalità primitiva nient'altro che disvalore rispetto a quella civilizzata. Riporto qui sotto un  paio di estratti] 



La causa soprannaturale della malattia e della morte 

Per gli indigeni delle isole Figi la malattia è come un fluido, un'influenza esteriore che viene a pesare sul malato e finisce col possederlo. Questo fluido e questa influenza può venire o dagli dèi, o dai demoni, o dai vivi: ma quasi mai da cause naturali, come dal freddo o dal caldo... La malattia non ha affatto per i Figini una causa naturale: essi «ne cercano il segreto praeter naturam, in un mondo invisibile, cioè, che vive accanto a questo nostro». Come la malattia, così la morte non è mai naturale, ma è dovuta a una causa mistica. Un indiano può morire trafitto da colpi o perché ha le ossa rotte, o sfinito da un'estrema vecchiaia, ma gli altri non ammetteranno ai che le ferite, o la debolezza dell'età abbiano causato la sua morte. Essi ricercano avidamente da quale stregone o per quale ragione egli è stato ucciso. I primitivi vedono la gravità delle ferite e vedono che la morte ne consegue inevitabilmente, ma la vera causa della morte è mistica. Le ferite non rappresentano che i modi in cui la causa mistica raggiunge il suo scopo, e i modi sono diversi, ma su di essi non si ferma la loro attenzione. Si direbbe che interessa loro il perché e non il come, la causa prima e non la causa seconda; ma non bisogna credere che essi si pongano intellettualisticamente questa domanda, il loro spirito si orienta istantaneamente e irresistibilmente verso il soprannaturale di cui avvertono emozionalmente la presenza. Entra in gioco quella che il Lévy-Bruhl chiama categoria affettiva del soprannaturale.


La mentalità primitiva riemerge anche presso noi civilizzati in determinate circostanze

Un esame accurato ci mostra immediatamente come noi siamo non meno primitivi dei primitivi. Se noi ragioniamo scientificamente, a un determinato effetto facciamo corrispondere una determinata causa. Una malattia avrà così la sua causa in un perturbamento delle funzioni organiche determinato da un germe che avrà intaccato un certo tessuto; la morte sarà dovuta a un accidente qualsiasi constatabile obiettivamente nella maggior parte dei casi. Ma questo rapporto che la scienza stabilisce tra un fatto per noi grave, denso di significato umano, decisivo per la nostra esistenza, e la causa obiettiva che l'ha determinato, ci si rivela subito inadeguato, insoddisfacente; esso pone una relazione, ma non ci «spiega» nulla, è un come non un perché. Ogni qualvolta noi domandiamo questo perché, noi ricadiamo nella mentalità primitiva. Se rimanessimo fedeli alla struttura logica del nostro spirito, o meglio al concetto moderno di causa come pura condizione, quale ci è stato trasmesso da Galilei e Newton, una serie di determinazioni e relazioni obiettive dovrebbe appagare il nostro bisogno esplicativo. Ci spiegheremo meglio con un esempio. Bergson scrive che nella grande guerra i soldati temevano più le pallottole che non gli obici, sebbene il tiro dell'artiglieria fosse assai più micidiale. Da una pallottola infatti ci si sente mirati e ognuno fa suo malgrado questo ragionamento: «per produrre questo effetto così importante per me come la morte o una ferita grave, bisogna che vi sia una causa della stessa importanza, bisogna che vi sia un'intenzione.» Un soldato che fu colpito dallo scoppio di un obice, raccontava che il suo primo impulso fu di gridare: «Comme c'est bête!» Che questo scoppio d'obice proiettato da una causa puramente meccanica, che poteva raggiungere chiunque o nessuno, fosse pertanto venuto a colpire lui e non un altro, era illogico per la sua intelligenza spontanea. Facendo intervenire la «cattiva sorte» egli manifesta ancora meglio la parentela di questa intelligenza spontanea con la mentalità primitiva.1 [...]

Quando il primitivo fa appello a una causa mistica per spiegare la morte, la malattia o qualsiasi altro accidente, quale è veramente l'operazione alla quale si abbandona? Egli vede per esempio che un uomo è stato ucciso da un frammento di roccia che si è staccato nel corso di una tempesta. Egli non nega che la roccia presentava una fessura, che il vento ha sradicato la pietra, e che il colpo ha schiacciato un cranio. Constata come noi l'azione delle cause seconde, ma erige la «causa mistica», come la volontà di uno spirito o di uno stregone, in causa principale, perché ciò che il primitivo vuol spiegare così, con una causa soprannaturale, non è l'effetto fisico, è il suo significato umano, la sua importanza per l'uomo e più particolarmente per un certo uomo determinato, quello che la pietra schiaccia. Non vi è nulla di illogico, né per conseguenza di «prelogico», né che testimoni una «impermeabilità all'esperienza», nella credenza che una causa deve essere proporzionata al suo effetto, e che una volta constatata la fessura della roccia, la direzione e la violenza del vento - cose puramente fisiche che non si curano dell'umanità - resta da spiegare questo fatto capitale per noi che è la morte di un uomo.2 [...]

La differenza tra noi e il primitivo è quindi una differenza di grado: noi proponiamo l'interpretazione mistica al limite della razionalità, ed essa non è per noi che la perplessità dello spirito di fronte a un accadimento che trascende la spiegazione obiettiva; invece il primitivo ingenuo, realista, crede immediatamente alla causa mistica e soprannaturale che si presenta al suo spirito. Potremmo dire che per noi l'interpretazione mistica è «extralogica», mentre per il primitivo è «prelogica». [...]

Al di là di questo nucleo luminoso che è il pensiero scientifico, noi troviamo sempre presente nel nostro spirito questa tenue e diffusa luce di crepuscolo che è la mentalità primitiva, essa nasce da una sorgente diversa ma non meno profonda del nostro spirito, e risplende vivida ogni volta che la visione obiettiva, intellettualistica in senso stretto, incontra il suo limite.

 


Remo Cantoni, Il pensiero dei primitivi, Il Saggiatore, 1963, pp. 37-38 e 109-116 [ho omesso alcune note]

 

 

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1. H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion, 1932, p 154.

2. H. Bergson, op. cit., pp. 151-152.

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