Perché studiare il latino?

1. Il pendolo torna a oscillare. Dopo il latino per tutti del ventennio nero, dopo il latino per nessuno della contestazione rossa, torna attuale il quesito: latino per molti o per pochi?Non è un quesito di oggi e neppure di ieri: «Causa principalissima dello scarso profitto del latino negli Istituti classici noi crediamo il fatto che le nostre scuole sono popolate e affollate di troppi giovani che non hanno attitudine alcuna a tali studi». La firma: Giovanni Pascoli. La data: 28 settembre 18931.

Quasi un secolo di discussioni: coi risultati che vediamo. Si sente un po' di fastidio ad aggiungervi altre parole, che saranno altrettanto vane delle precedenti. Perché il latino gode di un triste privilegio, che non ha, l'altra lingua classica, il greco: è diventato, da fatto culturale, fatto ideologico, simbolo di educazione elitaria, e quindi di discriminazione sociale. Se si vuole correttamente impostare la questione del latino, si deve prima spoliticizzarla. Perciò sono scettico.

2. Le ragioni dello studio del latino nella nostra cultura dovrebbero essere ovvie. Sono ragioni storiche, non pedagogiche. Quando Gadda abbina «il compito di latino e il compito di matematica» in uno stesso epicedio della logica e della ragione»2, porta acqua al mulino degli avversari. Il latino non è più «logico» di qualunque altra lingua. Tutte le lingue hanno una loro «logica», cioè un loro sistema: formativo è lo studio contrastivo di sistemi linguistici diversi, della lingua madre, per noi l'italiano, e di una lingua seconda, che può essere il latino come il greco antico o qualunque lingua moderna. È lo studio contrastivo a stimolare la riflessione sui meccanismi del linguaggio, la consapevolezza della relatività delle categorie grammaticali e delle «visioni del mondo» che vi si esprimono. Anzi, a tale scopo sarebbe forse più utile una lingua geneticamente diversa dall'italiano. Ma proprio perché il latino non è che una fase antica dell'italiano, ci aiuta a renderci conto dello strumento linguistico che usiamo. E, al limite, a usarlo meglio. Oggi, per un complesso di cause socioculturali (vertiginoso aumento degli italofoni, diffusione dei mass-media, prevalenza della comunicazione aurale, sgretolamento della base tecnica dell'insegnamento, pressione dell'inglese, etc.), l'italiano sta subendo un drastico processo di semplificazione, che rischia di diventare un vero e proprio impoverimento. A livello sintattico, per esempio, il congiuntivo è in via di estinzione. Si può vivere anche senza congiuntivi, certo: a scapito, però, di quella «espressione esatta di più sottili gradazioni di sentimenti e di pensieri» in cui Eliot vedeva il primo scopo di una lingua classica3. Soprattutto il lessico, resecato dalle sue fonti latine, non più alimentato dalla frequentazione della nostra tradizione letteraria, s'impoverisce spaventosamente. Per chi insegna, è un'esperienza quotidiana. Quando insegnavo al Magistero, la metà circa degli studenti, molti dei quali già insegnanti elementari, confondeva «virile» con «forte», perché non era in grado di connetterlo con l'accezione etimologica di vir. Durante una lezione alla Facoltà di Lettere, nessuno dei futuri insegnanti mi seppe dire l'esatto significato di «flebile», perché nessuno la riconduceva alla base latina di fleo. Che avranno inteso, quando si saranno trovati a leggere e a spiegare, che so io, la «flebile elegia» di Carducci? questo è un altro punctum dolens del problema. Stiamo velocemente distruggendo la nostra capacità di leggere i classici - italiani dico, non latini. L'italiano della nostra tradizione letteraria sta diventando una lingua straniera. E non parlo dell'italiano di Dante o del Machiavelli, ma di quello del Pascoli o del d'Annunzio. Una volta, negli anni '70, incontrai in treno un collega italianista, che sapevo essersi messo a capo della contestazione studentesca contro l'esame di latino scritto. Mi divertii a proporgli alcuni passi di nostri scrittori di non immediata decodificazione. Se la cavò piuttosto male, perché si trattava di espressioni che, per essere intese, andavano letteralmente tradotte in latino. È un caso tutt'altro che eccezionale. Fino al d'Annunzio tutta la nostra lingua letteraria si è modellata sul latino a tutti i livelli, lessicale semantico sintattico stilistico. Una lettura che non tenga conto della filigrana del latino fraintende, non intende. Solo coi crepuscolari cambiano gli archetipi linguistici, e il francese, e più tardi l'inglese, si sostituiscono al latino. Ma non senza eccezioni e rivisitazioni, anche contemporanee, come Gadda e Zanzotto. Buttiamo pure via il latino, butteremo via una larga fetta dell'italiano letterario.

La parola giusta l'ha detta con succosa stringatezza Carlo Bo in risposta a un recentissimo questionario di «Tuttoscuola»: «Non si può vivere senza conoscere le proprie radici»4. [...] Le nostre radici sono latine: è un fatto storico, e, come tutti i fatti, può piacere o no, ma non si può modificare [...]

Queste radici latine noi le abbiamo in comune con tutta l'Europa. se la civiltà occidentale è stata sagomata da tre grandi civiltà antiche, la greca, la latina, l'ebraica, il tramite linguistico - che non è solo formale, perché le categorie del pensiero e del linguaggio interagiscono - è stato il latino: dall'unità politica dell'impero romano a quella religiosa della cristianità medievale, dall'unità culturale dell'umanesimo a quella scientifica del mondo moderno (fino al XVIII secolo la scienza parla prevalentemente in latino, e in latino fu dato l'annunzio della nuova dimensione del cosmo, che avrebbe mutato il senso umano dello spazio). La letteratura europea prima scrive in latino e poi dalla letteratura latina mutua temi e topoi; le lingue europee, anche quelle non romanze, modellano sul latino o sulle lingue neolatine (specie il francese) le loro capacità produttive , morfologiche semantiche lessicali [...]. Senza il latino non esisterebbe un «lessico europeo»: «Le signe européen, c'est la langue latine»5. [...]

Ecco dunque cos'è il latino: l'indispensabile strumento per riappropriarci del nostro passato, di italiani e di europei, per vivere meglio il nostro futuro di italiani e di europei. Ma forse i latinisti non fanno il loro interesse difendendo il latino. Giorno verrà, se si continua di questo passo, che i pochi latinisti superstiti saranno pagati a peso d'oro per tradurre e salvare quell'immenso patrimonio culturale - religioso letterario filosofico giuridico scientifico - che forma l'humus storica (che si scriva comunemente storico è un altro segno dei tempi) dell'Europa moderna [...]

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1. G. Pascoli, Prose, I, Milano 1971, p. 591.

2. C.E. Gadda, Il latino nel sangue, in Il tempo e le opere, Milano, 1982, p. 60.

3. T.S. Eliot, Che  cosa è un classico?, «Poesia» VI, 1947, p. 18.

4. Cito dal «Resto del Carlino» del 5 aprile 1983.

5. F.X. De Maistre, Du pape, Paris 1821, p. 203.

 


Alfonso Traina - Giorgio Bernardi Perini, Propedeutica al latino universitario, Pàtron Editore, 2007, pp. 429-432.


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